“Alla sera quando mi corico non ho nulla da rimproverarmi”. E’ probabilmente questa la frase più iconica del servizio andato in onda su Le Iene martedì sera sul delitto di Garlasco. Dal carcere di Bollate, alle porte di Milano, la iena Alessandro De Giuseppe (in un servizio scritto da Riccardo Festinese) ha incontrato Alberto Stasi, che nel 2015 è stato condannato a 16 anni di carcere per l’omicidio nel 2007 dell’allora ex fidanzata, Chiara Poggi - di 26 anni. Il delitto di Garlasco è stato, come quello di Brembate di sopra (Yara Gambirasio), quello del delitto di Avetrana (Sarah Scazzi), quello di Cogne (Annamaria Franzoni) e magari toh, anche quello di Novi Ligure (il massacro di Erika e Omar), uno dei casi di cronaca nera più seguiti dai media del nuovo millennio. E nell’intervista, Stasi, che ai tempi dell’omicidio - come ricorda sempre lui - era solo un ragazzo, uno studente, ripercorre cosa non è andato in quell’inchiesta. Perché lui, che all’epoca aveva solo 24 anni, è stato mandato in cella più volte e si è ritrovato, pur con delle assoluzioni (ai tempi momentanee) la vita stravolta. Ai tempi, come lo riprendono le telecamere dai finestrini posteriori della macchina dei carabinieri, Stasi era uno studente con un look adolescenziale. Gli occhialini, i capelli corti con le punte sopra le orecchie, la camicetta. Oggi ha parlato un uomo di 38 anni con uno sguardo convinto, chiaro, maturo, consapevole e realista su tutto.
"Ero spaventato ma anche abbastanza sereno, quella tranquillità di chi ha la convinzione di potere chiarire le cose. In quella notte l'accertamento era preliminare, puoi anche aspettare quello definitivo, perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale?”, ha detto Stati a un certo punto, parlando delle accuse che piovevano su di lui nelle ore successive al suo trasferimento in carcere per volere della procura di Vigevano. “Non c'era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse, e quindi venni accompagnato in carcere". E chiaramente la prima notte non dormì - “avevo, a turno, una persona che controllavo quello che facevo. In totale sette sconosciuti che guardavano qualsiasi cosa facessi e io la prima notte in carcere non ho dormito”.
E poi arrivano le accuse. Non solo ai media che “avevano circondato casa”, ma anche ai Ris di Parma - quelli di Meredith a Perugia, ma in realtà un po’ ovunque nel crime italiano - che secondo lui “non distinguevano una goccia di sangue da una barbabietola”. “Erano mitizzati”, ha detto Stasi.
A De Giuseppe (che ha deciso - o chi per lui - di tirare fuori un’esclusiva che non ci mancava, ma che ci torna a far capire quanto cazzo ci piace lo spaghetti crime) Stasi ha detto: “La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il pm non è mai andato a dire: "Questo provvedimento era prematuro”, perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo".
Chiaramente Stasi parla di giudici come cattivi maestri. Sono loro quelli che hanno fatto la brutta figura di condannare prima, scarcerare poi, e infine, dopo più di sette anni, condannare definitivamente il (presunto?) colpevole. “È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone”, ha detto.
Infine, un po’ come nel finale di certi hirst movie, De Giuseppe gli chiede che cosa farà nel futuro (tipo: Che cosa farai Jim con tutti quei soldi adesso?”). E Stasi non sembra sorpreso della domanda e gli risponde con un occhio anche diverso, quasi spensierato, come quando parla in vari momenti della sua famiglia. “Se hai la fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia, tanto per fare un esempio", ha detto Stasi.
Oltre al punto di vista di Stasi, emergono, dal servizio in onda su Italia 1, altri due principali antagonisti. Le magistrature, con i personaggi all’interno che volevano soprattutto non sfigurare, e i media. Come accaduto in tanti altri casi di crime italiano, telecamere e microfoni davanti stazioni di polizia, villette e carceri sono stati all’ordine del giorno a Garlasco, in provincia di Pavia, rovinando non solo la vita di molte persone, come le famiglie dei coinvolti, ma anche aumentando le incertezze e i dubbi su alcune dinamiche processuali.