Nel teatrino dell'industria automobilistica europea, dove i protagonisti si alternano con la velocità dei nostri premier, durante la Prima Repubblica, ecco servita l’ultima puntata del drama industriale anche conosciuto come “elettrificazione”: Carlos Tavares, il ceo di Stellantis, quello che doveva essere il salvatore della patria - anzi, delle patrie, considerando il potpourri franco-italo-americano che è diventato il gruppo - ha presentato le sue dimissioni. Una mossa che fa tremare le poltrone dei consigli d'amministrazione quanto i portafogli dei contribuenti d'oltralpe, proprio mentre l'industria dell'auto cerca di capire se il futuro è elettrico, a idrogeno, o semplicemente un gigantesco buco nero di sovvenzioni statali. La narrazione contemporanea dell'industria automobilistica europea ci regala oggi un affresco di straordinaria complessità: da una parte Stellantis, ardito esperimento di ibridazione culturale dove la spregiudicatezza yankee si fonde - o forse si confonde - con il dirigismo d'oltralpe e quella peculiare forma di creatività italiana che trasforma ogni crisi in un'arte performativa. Dall’altra Volkswagen, al centro di uno spettacolo parallelo di non minor fascino, mentre si muove con la grazia di un elefante in una cristalleria di lusso, tra ambizioni elettriche e fantasmi di un dieselgate mai dimenticato. Se il panorama dell'automotive europeo fosse una tragedia greca, il gruppo di Wolfsburg ne sarebbe, infatti, il protagonista più tormentato. Il colosso tedesco, un tempo simbolo granitico della potenza industriale teutonica, sta attraversando una metamorfosi kafkiana che farebbe rabbrividire persino i più ottimisti tra gli analisti di Deutsche Bank.
La capitalizzazione di mercato dei singoli brand del gruppo si sta sciogliendo come neve al sole di agosto: Porsche, il gioiello della corona che doveva essere il salvagente del gruppo nella tempesta elettrica, ha visto la sua valutazione precipitare di quasi il 50% nel giro di un anno e mezzo. Audi, un tempo sinonimo di solidità bavarese, sta chiudendo le linee di produzione delle elettriche con la stessa frequenza con cui un tempo inaugurava nuovi showroom, mentre la situazione di Seat ricorda sempre più quella di un esperimento di fisica quantistica, dove l'esistenza stessa del marchio sembra essere contemporaneamente probabile e improbabile. Il fiore all'occhiello di questa sinfonia del declino è la fabbrica di Zwickau, trasformata con grande clamore nel tempio dell'elettrificazione europea e ora ridotta a operare a singhiozzo, prima di chiudere, come un motore diesel con le candele sporche - un'ironia che non sfuggirà agli aficionados del dieselgate. Gli stabilimenti di Dresden e Emden, convertiti alla produzione elettrica con investimenti faraonici, stanno vivendo una fase che potremmo eufemisticamente definire di "ripensamento strategico", mentre i sindacati tedeschi, tradizionalmente collaborativi, cominciano segni di irrequietezza che farebbero impallidire persino un delegato della Fiom degli anni '70.
E qui viene il bello: mentre la Francia si prepara a mobilitare risorse pubbliche come se stesse organizzando una nuova edizione del Piano Marshall (questa volta per salvare la sua industria automobilistica) e mentre i contribuenti tedeschi sanno già che toccherà a loro evitare il collasso di un’industria che, secondo la migliore tradizione capitalistica occidentale è too big to fail, noi non possiamo fare a meno di notare come questa storia ci suoni familiare. Per decenni, l'Italia ha fatto da bancomat alla Fiat, tra cassa integrazione, incentivi alla rottamazione e sussidi vari, in un valzer di risorse pubbliche che farebbe impallidire anche il più spregiudicato dei banchieri centrali. Ma ora, in un paradosso che solo la storia sa regalare, l'allontanamento di Fca dal contesto italiano - quel progressivo sganciarsi che tanto ha fatto piangere i nostalgici - si sta rivelando una benedizione mascherata per le nostre finanze pubbliche. Insomma, mentre i francesi si preparano a scucire miliardi per mantenere in vita il loro sogno di grandeur automobilistica, noi italiani possiamo finalmente guardare lo spettacolo dal loggione, con il distacco di chi ha già dato - fin troppo - e ora può permettersi di fare lo spettatore. Gli stabilimenti sul nostro territorio nazionale? Certo, ci sono ancora, operativi quanto basta per non far gridare allo scandalo. Ma almeno non dobbiamo più essere noi a tenere in piedi il carrozzone. Chapeau, messieurs les français: ora tocca a voi aprire il portafoglio. E vi auguriamo di divertirvi quanto ci siamo divertiti noi nei decenni passati.