Nel silenzio tombale che avvolge i referendum sulla giustizia, pareva strano che Luciana Littizzetto non cogliesse l’occasione per strappare il quarto d’ora di autopromozione facile. A regalarglielo è stato il solito Michele Anzaldi, segretario della commissione Vigilanza Rai in quota Renzi, con la sua sonda permanente sulle opinioni non allineate, a suo parere, al mitologico “servizio pubblico”. Nell’ultima puntata di “Che tempo che fa?”, la maître à penser di Fabio Fazio ha sparato la sua indispensabile perla: «Il 12 giugno pensavo di andare al mare». La Littizzetto forse non lo sa o non si ricorda, ma ha un precedente illustre: Bettino Craxi. Nel 1991 il Partito Socialista, che di lì a due anni sarebbe stato spazzato via da Mani Pulite, invitò gli italiani a raggiungere le spiagge, piuttosto che recarsi ai seggi per dire sì o no alla preferenza unica proposta da Mario Segni. Si chiama democrazia a targhe alterne: quando non fa comodo e non conviene, il voto dei cittadini vale meno di una giornata di svacco sotto l’ombrellone. Non è che Lucianina le sue ragioni non le abbia: è vero che i cinque quesiti sono di un tecnicismo esasperato ed esasperante (obbiettivamente, la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura non è pane per i denti della signora Maria disperata per le bollette). Non possiamo essere «60 milioni di Perry Mason, o di Giuliani Amati» a capo della Corte Costituzionale. Né «sul water», noi comuni mortali, siamo abituati «a leggere il manuale di diritto costituzionale». Come in effetti, altresì, non sembra tanto peregrino pensare che ci sia stato per anni chi ha creduto che la trasmissione Forum ospitasse storie reali. Tutto sottoscrivibile, benché, sul piano della battuta comica, non da spanciarsi troppo dal ridere.
Lo sanno anche i promotori, Lega in testa, che questa tornata referendaria è destinata a non toccare il quorum del 50+1 neanche alla lontana. Quel che non torna e diciamo pure non va, nella pisciatina della stridula tuttologa, è anzitutto il doppiopesismo. Dice la Littizzetto: i referendum sull’eutanasia e sulle droghe leggere, bocciati dalla Consulta, quelli sì avrebbero potuto farci votare “con la nostra coscienza”. Altrimenti, sostiene sempre la nostra, facciamo prima ad abolire il parlamento e far votare tutti su tutto. Cioè: i temi che vanno bene alla mia sensibilità, o per meglio dire a una certa sensibilità della sinistra engagé (ma engagé con i paraocchi), quelli son degni e meritevoli. Sul resto, lasciamo che a sbrigarsela siano i nostri produttivissimi rappresentanti di Camera e Senato. Ora, la coscienza non va in vacanza, o al mare, se la materia è più ostica di altre. Semmai, diventa coscienza informata o meno. Certo, è dura, documentarsi su argomenti di tal genere. Ma dovrebbe essere compito in primis di chi governa, informare correttamente ed esaustivamente la cittadinanza. In Svizzera, dove si vota direttamente su quasi tutto (in alcuni Cantoni, perfino sul bilancio finanziario, cioè sulle tasse), esiste un sistema rodato di informazioni ufficiali per cui il cittadino non ha alibi, almeno sulla carta (senza contare l’auspicabile apporto di giornali e media, ma sui nostri, stendiamo un pietoso velo). Ovvio, non siamo e non saremo mai la Svizzera (non che sia del tutto un male, tra parentesi, data la noia ferale che ammorba la vita dei nostri efficientissimi vicini). Resta il fatto che la democrazia diretta potrebbe essere un utilissimo strumento complementare al parlamento, nell’Italia ostaggio di corporazioni, consorterie e mafie fra cui è lecito annoverare anche i partiti, ridotti a clan sempre più personalistici, alias comitati elettorali o d’affari. Una complementarietà che in teoria, nonostante alla Littizzetto non aggradi, presupporrebbe quanto meno il rispetto di tutti i tentativi referendari. A maggior ragione se non se ne condivide nulla di nulla.
Ma Lucianina, naturalmente, si guarda bene dal correre il rischio di passare da astensionista pura, orrore e raccapriccio per il ceto medio semicolto. E quindi, oplà, alla fine della concione si rimangia la pseudo-provocazione e, fattasi seria, afferma: «Io a votare ci andrò, perché è un mio diritto e perché c’è chi è morto per questo». Per carità, guai se manca il ricordo obbligato dell’anno-che-non-passa-mai, il 1945 che ci liberò dal fascismo. Quel segugio di Anzaldi avrà finto di non arrivare in fondo, o magari non ci sarà arrivato davvero. In realtà è proprio questa chiusa colma di retorica che fa ancora più girare i didimi (la Littizzetto, a cui piace vincere facile, avrebbe usato un termine più scontato e triviale). Perché uno ha anche il diritto di astenersi, in realtà. Ma, che voti o no, dovrebbe avere il buongusto di essere coerente con i propri princìpi. Specie se ci si impanca in servizio permanente effettivo a vestali della democrazia, anzi della Democrazia scritto in maiuscolo, sempre in pericolo di cadere in qualche ennesima, imprevedibile versione di fascismo eterno e bla bla bla (battaglione Azov a parte, s’intende).