Il risiko bancario di cui sono protagonisti Unicredit e il suo amministratore delegato Andrea Orcel sta facendo affiorare fragili e delicati intrecci tra finanza, energia e geopolitica. Intrecci che si legano a doppio nodo con gli interessi che ancora cementano le relazioni tra Italia e Russia, nonostante l’invasione dell’Ucraina e le sanzioni imposte a Mosca le abbiano temporaneamente insabbiate. La pietra dello scandalo è uscita venerdì sera da Palazzo Chigi, quando il Consiglio dei ministri a partorito un dpcm che impone il Golden Power sul piano di offerta pubblica di scambio (ops) lanciata da Unicredit su Banco Bpm. Pur non bloccando formalmente la scalata, il governo ha imposto condizioni molto rigide, che potrebbero compromettere gli ambiziosi piani di Orcel. E anche la tenuta del governo. A giudicare dallo scontro consumatosi a Chigi tra Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Il leader di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi che con la Russia di Putin ha sempre mantenuto rapporti molto stretti, si è espresso contrario al veto governativo, giudicato un’intromissione nel mercato non motivata dall’interesse nazionale. La crisi si sarebbe ricomposta con una massiccia revisione delle prescrizioni da adottare su Unicredit decise in prima battuta dal governo, ma quella che ha fatto più scalpore resta la richiesta fatta a piazza Gae Aulenti di uscire dal mercato russo entro 9 mesi – non più 90 giorni come abbozzato inizialmente.

Sul Golden Power Orcel non ha escluso un ricorso al Tar, anche perché l’ipotesi di vendere la filiale russa è già stata sondata sembra essere stata accantonata dall’ad di Unicredit. Gli unici acquirenti, per ora, parrebbero essere russi, paesi del blocco Brics se non addirittura oligarchi vicini a Putin, tutti attori assolutamente non graditi all’Unione europea. E chissà se il verdetto di venerdì non spinga Unicredit ad aderire alla lista di Mediobanca nel voto per il rinnovo del board di Generali previsto per questa settimana: “Orcel voterà con Piazzetta Cuccia per creare un blocco anti Roma?”, si chiede La Verità. Che finanza, industria e geopolitica restino interconnesse nonostante le sanzioni è evidente da un’altra questione, da rintracciare alla Isab di Priolo, il più grande sito di raffinazione del petrolio. La società è stata acquistata da investitori greco-ciprioti di Goi Energy e Trafigura quando l’Italia abbandonato le relazioni con la russa Lukoil a causa delle sanzioni. A due anni di distanza si è scatenata una guerra interna tra i nuovi proprietari che paiono intenzionati a vendere. Alla finestra si sono affacciati due acquirenti: si tratta degli azeri di Socar, la oil company interessata anche agli asset di Ip, e gli svizzeri di Gunvor, il cui ceo si chiama Torbjörn Törnqvist, “uno svedese che ha fatto i soldi assieme a Gennady Timchenko, prima che, al tempo dell’operazione in Crimea, finisse sotto sanzione Usa”, conclude la Verità. Il rischio è di vedere la situazione piombare indietro di due anni, quando per allontanarsi da Mosca si vendette al primo offerente, pregiudicando l’importanza strategica di Priolo.
