Un contratto a termine non riconfermato non dovrebbe fare notizia. Accade ogni giorno, in migliaia di aziende: la persona non è adatta al ruolo, il rapporto non funziona, e il datore di lavoro decide di non proseguire. È fisiologia del mercato del lavoro, un diritto d’impresa che nessuno mette in discussione. Se la storia si fosse fermata qui, non avremmo un caso mediatico. Ma quando la protagonista è Martina Strazzer, founder di Amabile Jewels, e la lavoratrice è la contabile assunta mentre era incinta, la prospettiva cambia. Qui non si parla soltanto di risorse umane, ma di narrazione, di immagine, di coerenza comunicativa.

Perché proprio la Strazzer, un anno fa, aveva scelto di trasformare quell’assunzione in manifesto: un gesto presentato non come ordinaria scelta di organico, ma come simbolo. La decisione di assumere una donna incinta non era rimasta confinata nelle stanze di un ufficio, era diventata contenuto social, posizionamento di brand, prova vivente di un impegno verso inclusività e modernità. Una bandiera sventolata davanti a follower, clienti e giornalisti. E se trasformi un gesto privato in atto politico e culturale, accetti che da quel momento in poi il giudizio non riguardi più solo le tue scelte aziendali, ma la tua capacità di essere coerente con il racconto che hai costruito. È il patto – spesso non dichiarato ma inesorabile – che ogni founder stringe con il pubblico quando sceglie di “metterci la faccia”. Ecco perché la mancata riconferma del contratto è esplosa come un boomerang. Non tanto per il licenziamento in sé – duro, ma comprensibile – quanto per la frattura insanabile tra storytelling e realtà. La rete, che perdona un licenziamento se spiegato, non perdona l’incoerenza. Perché la coerenza, oggi, è la valuta più preziosa di qualunque brand, più rara dell’oro che Amabile Jewels lavora nei suoi laboratori. A rendere la situazione ancora più esplosiva è stata la gestione della crisi. Prima un silenzio assordante, poi un comunicato freddo, impersonale, scritto con linguaggio tecnico, quasi legale. Nessun volto, nessuna voce, nessuna assunzione di responsabilità. Proprio nel momento in cui la community chiedeva carne e sangue – emozioni, spiegazioni, un contatto umano – sono arrivati cavilli e carte bollate.

Il risultato? La sensazione che l’azienda si stesse nascondendo dietro i codici e non dietro le persone. Un errore che nel 2025 costa caro, perché i brand non sono più solo produttori di beni: sono media company che vivono e muoiono di reputazione. Eppure, la soluzione era a portata di mano. Bastava poco per cambiare il corso della storia. Dire la verità con coraggio: “Abbiamo sbagliato a trasformare un atto HR in simbolo valoriale. La lavoratrice non era adatta e ce ne assumiamo la responsabilità”. Una frase dura, certo, ma chiara e onesta. Metterci la faccia, con un video della founder: tre minuti di umanità, magari la voce incrinata, lo sforzo di mostrarsi persona prima che imprenditrice. Il pubblico non pretende perfezione, pretende autenticità. La vera lezione del caso Strazzer è che non si può fare marketing con la vita delle persone e poi credere che basti un comunicato stampa a salvare la faccia. Il pubblico non ti misura sul codice civile, ma sulla coerenza.
