In un’epoca in cui il dibattito pubblico sembra affondare nella palude dell’unanimità compiacente, è quasi un sollievo udire il crepitio dell’eresia. La scintilla? Una frase. Una similitudine. Sergio Mattarella, da Marsiglia, accosta l’aggressione russa all’Ucraina al Terzo Reich hitleriano. Ovazione generale: politici, giornalisti, commentatori, tutti pronti a difendere il Capo dello Stato dalla prevedibile risposta tutt’altro che cordiale arrivata dalla Russia (una risposta, appunto, ci sarebbe da sottolineare, non un assalto casuale e arbitrario). Tutti, tranne pochi. E quei pochi – sempre più o meno in bilico sul crinale della violazione del’arcigno articolo 278 del Codice Penale, “Offesa all'onore o al prestigio del Presidente della Repubblica” – pongono questioni scomode ma probabilmente necessarie.
Marco Travaglio, con la sua abituale veemenza, apre il fuoco. E non si limita a sfidare Mattarella: prende di mira Roberto Benigni, colpevole di aver “arruolato” l’opinione pubblica sotto il vessillo quirinalizio. «Se qualcuno pensa che il Benigni di oggi sia satira – le sue parole in un video pubblicato dal “suo” Fatto Quotidiano – evidentemente non sa cos’è la satira. Satira era il Benigni dell’80, quello che limonava con la fidanzata, quello di Wojtilaccio. Quello di adesso è un corazziere in servizio permanente effettivo per Mattarella».
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Ma il cuore della polemica è la Storia, quella com’è stata, non quella piegata alla retorica. Travaglio affonda il colpo con una brutalità che puzza di verità: «Un presidente della Repubblica dell’Italia, cioè del principale alleato del nazismo, che si permette di paragonare la Russia al Terzo Reich, l’ha fatta grossa. La Russia ha messo 28 milioni di morti per sconfiggere il nazismo, noi stavamo coi nazisti fino a quando ci sembrava che vincessero. Poi abbiamo voltato gabbana. È un paragone storico assurdo, rispetto al quale penso che Mattarella sia riuscito nella difficile impresa di dare ragione alla portavoce del Ministero degli Esteri russo, Zakharova». E poi l’affondo, destinato a Benigni: «Parla per te, non a nome mio. Per fortuna c’è ancora chi pensa con la propria testa e non con quella di Benigni».
Sempre in area Fatto, Peter Gomez, meno pirotecnico ma altrettanto chirurgico, interviene a Tagadà (La7) e piazza il bisturi sul cuore del problema: «Rispetto Mattarella in maniera assoluta. Penso tutto il male possibile di Putin. Eppure trovo totalmente infondato quel paragone». Non è un esercizio di sofismo, è la memoria che reclama rigore: «Zakharova – continua Gomez – ha spiegato bene come viene colto psicologicamente quel paragone in Russia: loro sono stati aggrediti dagli italiani e dai tedeschi, e questa cosa se la ricordano bene per i milioni di morti».
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Poi, il direttore del Fatto online formula l’obiezione capitale, quella che dovrebbe disarmare ogni semplificazione: «Se quell’accostamento fosse vero, allora dovrebbe passare l’idea che qualunque aggressione sia nazista. Quando gli americani bombardarono l’Iraq mentendo sulle armi di distruzione di massa, dovremmo chiamarla ‘nazista’?».
A questo punto interviene Augusto Minzolini, fedele alla logica della reductio ad Hitlerum: «Ma Putin è un autocrate. Parliamo di un regime». E qui Gomez colpisce con un’evidenza lapidaria: «Si può essere uno sporco autocrate criminale senza che, per questo, si venga definiti nazisti. Hitler ha fatto i campi di sterminio. Se usiamo le parole a caso, perdiamo le differenze. E quando perdiamo le differenze, finisce che qualcuno giustifica l’ingiustificabile».
Non basta. La conduttrice Tiziana Panella gioca la carta Bucha: il massacro, l’orrore, il sangue. «Un eccidio orribile – ammette Gomez senza esitazioni –. Ma chi ha fatto il corrispondente di guerra sa che in ogni conflitto c’è una Bucha. E allora, se Putin fosse davvero Hitler, perché gli americani stanno cercando un accordo di pace con lui?».
È l’apoteosi della logica contro l’isteria propagandistica. Se davvero Putin fosse Hitler, il solo pensare a un negoziato sarebbe già un tradimento della civiltà, o no? Ma (ed ecco il punto che nessuno vuole affrontare per non essere tacciato di antimattarellismo), se invece non lo è, il paragone è una colossale scorrettezza storica e politica.
Panella obietta che «se devi fare la pace, devi parlare con chi ti sta facendo la guerra», e allora Gomez conclude con una chiosa che è insieme una lezione di comunicazione e un avvertimento: «E allora, forse, la cosa migliore dal punto di vista diplomatico è non definirlo Hitler».
L’arte del paragone è sottile e insidiosa. Può illuminare, ma può anche ingannare: quando tutto è nazismo, nulla è nazismo. Quando tutti sono Hitler, Hitler non è più nessuno.
Travaglio e Gomez non difendono Putin, ma difendono la Storia dalla sua parodia. E forse, in questo, stanno rendendo un servizio alla verità maggiore di quello reso da tanti zelanti e tutt’altro che necessari difensori del Capo dello Stato (che sa benissimo difendersi da solo). Una verità semplice, ma oggi scomoda: la retorica è il primo nemico della tanto sbandierata memoria. E senza la memoria, il passato non ci insegna più nulla.
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