Un'offensiva cruda, ben oltre le aspettative. La Russia ha invaso l'Ucraina: la crisi russo-ucraina ora è una guerra vera e propria, un conflitto che nasce in violazione del diritto internazionale, degli obblighi che ogni nazione ha nei confronti delle altre nazioni. Esistono infatti punti fermi ed è una prospettiva fondamentale per interpretare ciò che sta accadendo. Ne abbiamo parlato con Alessandra Annoni, professoressa associata di Diritto internazionale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara, co-coordinatrice del Laboratorio Core Crimes e vice direttrice di Macrocrimes.
L'attacco odierno è direttamente figlio del riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass da parte della Russia. Che significato ha per il diritto internazionale?
La mossa si pone in contrasto con gli obblighi internazionali, in particolare quello di rispettare l’integrità territoriale degli altri Stati. Nel momento in cui c’è un tentativo di secessione, la reazione delle altre nazioni dovrebbe essere attendista: non bisognerebbe interferire con questo processo, né intervenire con un riconoscimento del tutto prematuro dell’indipendenza dell’entità separatista.
Putin ha fatto proprio questo.
L’aspetto interessante è notare il tentativo di giustificare questa mossa con la lente e attraverso il linguaggio del diritto internazionale. Putin, in un passaggio del suo discorso, ha sostenuto che la popolazione russa delle regioni separatiste fosse sottoposta a una forma di discriminazione talmente estrema da poter giustificare una secessione come rimedio alla violazione dei diritti della popolazione locale. Per quanto utilizzato a sproposito in questo caso, si tratta esattamente del tema della remedial secession che si pone nel diritto internazionale: l’estremo rimedio per una estrema violazione.
Perché Putin ha utilizzato questa mossa a sproposito?
Perché non esistono evidenze di un atteggiamento, da parte del governo centrale ucraino, che possa essere qualificato come violazione così grave dei diritti della popolazione locale, in particolare del divieto di discriminazione, da poter giustificare la remedial secession.
Quale può essere un esempio di remedial secession?
Gli argomenti utilizzati dal Kosovo per giustificare l’indipendenza erano spendibili in questo senso. Ed è singolare che in quel caso la Russia ritenne che non fossero sufficienti per invocarla.
Eppure il presidente russo ha utilizzato, nelle ultime settimane, anche il termine “gencidio” nei confronti della popolazione filorussa.
Anche questo è un tentativo di ancorare i fatti a una giustificazione sostenibile sotto l’aspetto del diritto internazionale. Se si vuole invocare quella soluzione bisogna sostanzialmente gridare al genocidio, che non è solo fisico, ma può essere anche culturale, ovvero la completa assimilazione della popolazione minoritaria a quella maggioritaria.
Ora, dopo l'attacco, si minacciano sanzioni nei confronti della Russia. Chi può irrogarle?
La questione è complicata. Il diritto internazionale tradizionale è abbastanza rudimentale in questo senso, perché si basava sulla logica dell’autotutela del solo Stato direttamente leso, in questo caso l’Ucraina. Ma la visione tradizionalista si sta evolvendo: sono emersi negli anni valori condivisi dall’intera comunità internazionale quali integrità territoriale, sicurezza e divieto dell’uso della forza. La violazione di uno degli obblighi a tutela di questi valori perpetrata ai danni della nazione lesa giustifica la reazione di tutti. Sono i cosiddetti obblighi erga omnes: Stati non direttamente lesi reagiscono alla violazione con sanzioni, ora esistono fondamenti normativi e prassi. Nel 2001 la Commissione del Diritto Internazionale, che è un organo delle Nazioni Unite, ha elaborato un progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati nel quale si parla anche di contromisure, appunto le sanzioni. Ma la formulazione della norma è ambigua, non chiarisce chiaramente chi le possa adottare perché già all’epoca c'erano due visioni, quella più restrittiva che le considerava appannaggio della sola nazione lesa e quella più evolutiva che avrebbe consentito anche a terzi di adottare sanzioni.
In tutto ciò, per paradosso, si parla poco appunto della nazione che ha il conflitto in casa, l’Ucraina: il racconto mediatico si concentra da un lato sulla Russia, dall’altro su chi le si oppone.
L’Ucraina è lo Stato leso, e la sua posizione è in effetti quella principale dal punto di vista giuridico in termini di possibili reazioni rispetto a questo illecito. Il tema ora è che ora si è arrivati all’uso delle armi: l’Ucraina non è parte della Nato e non possono scattare i meccanismi di difesa già rodati che valgono in caso di attacco di uno Stato membro. Ma ciò non esclude che l’Ucraina possa chiedere aiuto alla comunità internazionale per difendersi: è quella che si chiama legittima difesa collettiva, il cui presupposto è la richiesta dello Stato; è l’Ucraina che decide se vuole farsi aiutare, e da chi. Non è immaginabile una situazione di legittima difesa in cui sono gli Stati terzi a decidere di volere tutelare l’integrità territoriale di un Paese, senza coinvolgerlo.
In questo senso chiedere l’aiuto della Nato, da parte dell’Ucraina, significherebbe quasi avvalorare la tesi di Putin secondo cui lo stesso obiettivo della Nato è quello di fare entrare l’Ucraina nell’alleanza. Come si esce da questo rompicapo?
Quella dell’Ucraina è una posizione non semplice, proprio sul come chiedere aiuto e a chi. La richiesta di aiuto può essere generica, ma anche puntuale ad alcuni Stati che hanno magari già manifestato interesse ad intervenire: in un senso o nell’altro la scelta avrà ripercussioni geopolitiche.
La mossa di Putin nasce da un pretesto, ma può teoricamente cambiare la norma?
L’assetto attuale delle norme di diritto internazionale è un punto di equilibrio fra diverse esigenze: da un lato vanno assicurati i diritti delle minoranze, dall’altro va tutelata l’integrità territoriale degli Stati preesistenti per un’esigenza di stabilità. Andare a toccare ora questo punto di equilibrio sarebbe destabilizzante in Europa e non solo: così si spiegano le dure reazioni che si sono viste sinora.