Avvicinandomi al numero 14 di Corso Belgio a Torino, sede del provveditorato regionale, non avverto nessun rumore se non quello del traffico. Nessuna canzone dei Modena City Ramblers o cori tipo “Fuoco, fuoco, fuoco alle galere”. Mi sembra strano, dato che è previsto un presidio Anarchico in sostegno ad Alfredo Cospito. Arrivo da una via laterale e il primo gruppo di persone che incontro sono giornalisti e fotografi armati di microfoni, videocamere e teleobiettivi, neanche fosse il red carpet di Sanremo. Oltre a loro un furgone blindato dei carabinieri e alcuni uomini in tenuta antisommossa. Ma appena mi sporgo sulla strada per attraversare, mi rendo conto che i blindati sono una decina e i militari non si riescono a contare. Tutti in assetto antisommossa con scudi e caschi, schierati come un plotone. Tutto il clamore di giornalisti e forze dell’ordine crea un grettesco contrasto col manipolo di antagonisti che si trova sul lato della strada dove batte il sole. Saranno una trentina di persone al massimo, per la maggior parte seduti nel piccolo controviale a bere birra e fumare un po’ di tutto. Uno striscione recita “A fianco di Alfredo, a fianco di chi lotta”. Il gruppo, seppur piccolo, è molto eterogeneo. Ci sono dei ragazzi li per caso, interessati forse per l’attualità del caso Cospito, il gruppo di persone vicino allo striscione sono invece gli anarchici veri, quelli sempre in prima fila nelle manifestazioni. C’è anche la vecchia guardia, con qualche sopravvissuto degli anni ‘70.
Il mio interesse si concentra, ovviamente, su questi ultimi. Mi avvicino sorridendo e un signore sulla settantina mi fa accendere una sigaretta. Iniziamo a parlare un po’ e capisco subito la sua disillusione generale: «Mi aspettavo di vedere più persone» gli dico, e lui: «È già tanto che siamo questi» mi risponde guardandosi intorno. Poi con una risata beffarda aggiunge: «Gli sbirri sono più di noi» ed effettivamente è vero, per ognuno dei partecipanti ci saranno almeno due carabinieri. Si aspettavano sicuramente un presidio più numeroso anche loro. «Sai cosa hanno in programma?» aggiungo. E l’anarchico attempato: «Ma che vuoi che facciano… le solite cose. Partirà un corteo o una cosa del genere, vedrai…» risponde con le sopracciglia sollevate e lo sguardo arreso. Mi spiega poi che non c’è la minima organizzazione, non c’è una regia o qualcuno che dirige le azioni di protesta. Sono tutti piccoli gruppi sparsi «come quelli che hanno bruciato il ripetitore in collina». Questo sia per «la natura anti-gerarchica del movimento anarchico», ci tiene a precisare, ma anche «per la mancanza di una cultura di protesta, ormai quasi del tutto estinta». Provo allora a ricordargli degli anni ’70: «Era una guerra» sostiene, ma con sguardo fattosi d’un tratto serio e rigido e non aggiungendo altro.
A questo punto si crea un po’ di trambusto, quando alcuni del gruppo bloccano un tram che non avrebbe dovuto passare, visto che la strada era chiusa al traffico. Sembrava stesse per nascere qualche tensione, ma non faccio in tempo ad avvicinarmi che lasciano ripartire il mezzo. Nel frattempo tutti i fotografi e videomaker iniziano a gironzolare frenetici intorno al gruppetto di antagonisti per filmare l’unico evento vagamente fuori dall’ordinario. Mi avvicino agli organizzatori e chiedo qual è il programma. «Mah, tra un po’ facciamo un corteo fino al Campus per la conferenza, tanto stare qua non serve a granché» mi risponde uno di quelli più in vista. L’avevo notato dare indicazioni e portare l’immancabile cassa dalla quale far partire il classico repertorio cantautore già sentito in mille manifestazioni. La sensazione è quella della stanchezza. Tutti sono lì annoiati, come se la protesta fosse un’abitudine difficile da togliersi di dosso. Parlandoci ho capito che in molti credono nei valori anarchici perché principalmente vivono una dicotomia noi-loro che li fa sentire più “liberi”, gli dona una identità sociale ben definita. Diciamo pure che alla base, di movimento politico, c’è davvero poco. Idee sparse, un po’ confuse, e zero organizzazione.
Parte il corteo, a quel punto saremo diventati una cinquantina di persone in tutto. Sfiliamo davanti al lunghissimo plotone di carabinieri e polizia come fossimo ad una parata. Partono i cori, gli attesi cori che però non hanno l’impatto immaginato. Una decina al massimo urlano a gran voce, il resto è disinteressato e alcuni canticchiano per conto loro. I tipi un po’ più “estremi”, birra in mano, urlano sfottò alle forze dell’ordine che intanto ci corrono a lato per presidiare la zona vicina al centro sociale Askatasuna. Scambio uno sguardo col vecchio “compagno”, mi fa un cenno e mi dice avvicinandosi: «Fanno più casino gli sbirri di noi». Mentre camminiamo, chiedo ad uno degli organizzatori del presidio cosa ne pensa del caso di Alfredo Cospito e quale, secondo lui, sarà l’esito dell’udienza del 7 marzo prossimo. «Ormai hanno già deciso che dovrà morire in carcere. L’hanno deciso dalla riqualificazione del reato che c’è stata a maggio». Lo incalzo, per sapere se ci saranno azioni di protesta ulteriori o se sa di qualcosa in programma, ma risponde vagamente: «Vedremo...» e fa spallucce. Insomma, la protesta come stile di vita e poco altro. Arriviamo al campus e aspettiamo l’inizio della conferenza. Molti entrano nel bar a prendere brioche e caffè, fumare una sigaretta, scambiare due chiacchiere. Mi sembra di essere tornato al Liceo il giorno della manifestazione. Parlo con alcuni ragazzi che si occupano della gestione di Radio Blackout, fonte di informazione molto conosciuta nell’ambiente. La sensazione è sempre la stessa: disillusione sullo stato di cose attuali. Avvertivo la loro noia anche solo a parlarne di “lotta sociale”. «Il problema è che oggi manca il substrato culturale» - dice un ragazzo sulla trentina - «c’è disinteresse, hai visto oggi che eravamo quattro gatti? Eppure Torino è piena di centri sociali, almeno lo era». Tra di loro parlano del Lavatoio, uno degli spazi occupati dove risiede la controcultura torinese. «Ci fanno belle mostre di serigrafia, litografia, auto produzioni artistiche, è figo, dovresti andarci» mi ripetono.
Entriamo nella sala della conferenza, ma ci fanno spostare nell’aula magna perché a quel punto siamo in tanti. L’evento è organizzato dai collettivi universitari e per questa ragione ci sono molti studenti che non sono per forza vicini ad ambienti anarchici. Intervengono Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale, Gianfranco Ragona, docente di Storia delle dottrine politiche e l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Alfredo Cospito. Mentre stanno per iniziare conosco una ragazza di Pisa. Studiava fisica all’università ma ha mollato per seguire la strada anarchica. Ancora una volta mi è chiaro quanto l’aspetto identitario sia predominante. La protesta è più uno spauracchio, un modo come un altro per affermare se stessi. Tutti sono ben consapevoli che il peso delle proprie azioni è pari a zero. Essere anarchici vuol dire innanzitutto frequentare alcuni posti, vestirsi in un certo modo e partecipare alla manifestazioni di protesta. Non si tratta di etichettare, piuttosto di comprendere come essere anarchici oggi è un tantino diverso che esserlo stati 40 anni fa. Inizia la discussioni ed i temi sono essenzialmente due: la sproporzione della pena inflitta a Cospito e la considerazione del 41 bis come “tortura di stato”. La preoccupazione maggiore dell’ambiente anarchico è che l’applicazione del 41bis possa in qualche modo mettere a rischio ogni forma di protesta contro il sistema. La visione è decisamente Orwelliana. Senza dubbio la vicenda è spinosa e saranno la politica, la magistratura e gli esperti di diritto a decidere nel merito. Certo è che, dopo aver ascoltato gli interventi, la sala si svuota lentamente. Esco anch’io ormai completamente saturo. Incontro anche gli organizzatori del presidio, loro erano usciti ormai da un pezzo. Li saluto e me ne vado. Finisce così, molto semplicemente, il mio pomeriggio tra gli anarchici. Mi aspettavo rabbia a tensione, ho trovato solo noia e rassegnazione.