Le ragazze fanno grandi sogni, forse peccano di ingenuità. Ma l’audacia le riscatta sempre, non le fa crollare mai. Era il 1995 quando è uscito il quindicesimo album di Edoardo Bennato dal titolo “Le ragazze fanno grandi sogni”, trainato dal singolo omonimo. Un album insolitamente malinconico, del tutto privo dei graffi e dell’ironia dei suoi album precedenti, anche per quello baciati dal successo. Prendete questa informazione e mettetela da parte, tornerà utile. Oggi, 27 agosto, siamo diretti a Stone Town, la Capitale, contenuta dentro il polo metropolitano di Zanzibar. Con noi c’è anche Maurizio, il manager del nostro restrittivo, il Jafferji Beach Retreat di Matemwi, e lì a Stone Town incontreremo anche sua moglie Nelly, parigina. Partiamo col nostro solito autista, solo che stavolta in auto siamo in otto, e va pur bene che è spaziosa e di poliziotti da queste parti proprio non se ne vedono (per altro a Stone Town vedremo una postazione di polizia di fronte alla quale si trova una moto con su quattro persone, padre, madre e due bambini piccoli, tutti senza casco, per dire). Prima di arrivare in città è prevista tappa in una cooperativa dove si producono spezie, per una visita privata. Allora, la nostra guida è un tizio del luogo che parla bene italiano, con un accento che non riesco a identificare, il Masai Jacopo incontrato ieri in spiaggia, per dire, parlava romano.
Inizia subito, la guida, dicendo qualcosa come “ciao, io sono la vostra guida, mi chiamo - seguito da un suono difficilmente comprensibile -, vi farò fare un giro per questo posto, voi potete chiedermi tutte le cagate che volete”, dove il termine ‘cagate’ è esattamente il termine che ha usato. Sarà così per tutta la visita, dove il tipo farà battute, spesso di natura sessuale, inanellando filastrocche discutibili, e parlando prevalentemente di cagate, appunto, nel senso che buona parte delle spezie serve o a cagare o a smettere di cagare, e di potenza sessuale, nel senso che altra parte delle spezie serve a questo. Lo farà spiegando bene tutte le spezie, sia chiaro, mostrandoci tutti i frutti, i semi o quel che è, dalla cannella, da lui descritta come la regina delle spezie, allo zenzero, il re, passando per il pepe, il cardamomo, la curcuma, la vaniglia, la noce moscata, l’aloe e tante altre, tutte spiegate benissimo, e associate all’ultimo a battute o filastrocche piuttosto sceme. Ad accompagnarlo un ragazzo più giovane, che prima si passerà non ricordo che spezia in bocca, riproducendo un perfetto rossetto, poi si infilerà nei capelli una serie di fiori rossi, diventando una sorta di femminiello zanzibarino. Un femminiello che prenderà tutte le spezie di cui il tipo delle cagate ci sta raccontando, e ce le farà odorare, assaggiare o quello che un copione preciso prevede.
Dopo che un altro tizio, cantando l’onnipresente Jambo Bwana, quella che fa “Jambo, Jambo bwana, habari gani, mzuri sana, wageni wakaribishwa, Zanzibari yetu, Hakuna matata”, nel mentre sto sempre scrivendo alla scrivania sulla terrazza della Princess Room del Jafferji Beach Retreat, un numero incredibile di ragazzi e bambini a giocare a pallone, i miei cari spalmati sui lettini, sotto ombrelloni ora inutili, il sole è basso, dopo che un altro tizio, cantando Jambo Bwana si è arrampicato su un albero di cocco, poi portandoci giù frutti che abbiamo prima bevuto e poi mangiato. il femminiello ci hai regalato cravatte, bracciali e anelli fatti di foglie di cocco, dando poi alle donne di famiglia una corona con fiori rossi, quei fiori rossi che aveva in testa prima, e a noi maschi cappelli come Re Julien, fantastici. Finita la visita, con una ennesima filastrocca che ci avrebbe fatto rivalutare la discografia pop da Alex Britti a Umberto Eco, siamo andati a Stone Town. Dire “siamo andati” e in realtà un eufemismo, o visto che stiamo nel bel mezzo di un racconto, una bella virata verso il fantasy. Stone Town, infatti, come la linea dell’orizzonte, sembra sempre sul punto di essere raggiunta ma non viene raggiunta mai. Per dirla in parole povere c’è un traffico da far impallidire quello di Caracas, solo infarcito di Vespe e Ape Piaggio, di biciclette, pullman e via discorrendo. Un delirio, al punto che pure Maurizio, spazientito, dirà al driver di farci scendere a un certo punto, per proseguire a piedi. È poco dopo mezzogiorno e da questo momento fino a circa le diciannove e trenta, quando risaliremo in auto a sole abbondantemente tramontato, sarà tutto un camminare per vicoli, provando, con grande sforzo fisico e nervoso a schivare motorini e moto che sbucano dappertutto e non si fermano, contando sul fatto che vi spostiate voi, gente che ti invita a entrare nel suo negozio e gente che si ferma a salutare prima Maurizio, poi Maurizio e Nelly, nel momento in cui la recupereremo in uno dei negozi di cosmesi e souvenir che gestisce sempre per conto di Javed Jafferji.
Javed Jafferji che ha anche un altro hotel in città, in perfetto stile swahili, e che ha anche il Museo di Freddy Mercury, che è una delle prime cose che andremo a vedere dopo aver pranzato. Il museo è piccolino, ma ci sono un sacco di foto d’epoca, dalle quali si evince che si, Freddie Mercury è di origini indiane più di quanto non sembri quando indossava l’ermellino, che i suoi dentoni da bambino risultavano ancora più dentoni e che, prima di scoprirsi gay, o bisessuale - non ho capito - ha avuto una donna che definiva l’amore della sua vita. Per il resto va notato che tra le sue ispirazioni risulta sia Jimi Hendrix che Rock Hudson, come lui morto di Aids, e va sottolineato come nel museo ci siano testi da lui manoscritti e un paio di noti abiti di scena, compreso il famoso giubbotto di pelle giallo esibito nei live. Che questa non sia mai stata la sua abitazione a Zanzibar, come in parte lasciato credere, è piuttosto irrilevante. Se si viene a Stone Town è tappa quasi obbligata, direi. Come è obbligatorio farsi almeno una foto davanti a una delle centinaia di porte massicce e decorate che si trovano un po’ ovunque, anche in palazzi che nel mentre cadono letteralmente a pezzi (a un certo punto Maurizio ci racconterà che dove ora si trova una anomia porta nuova si trovava una di quelle molto belle, evidentemente vendute a un qualche albergo come decorazione). Alcune hanno anche grossi spuntini di ottone, lì per tenere lontani gli elefanti, essendo questa cosa delle porte un retaggio delle influenze indiane.
Stone Town è la città di Freddie Mercury, certo, ma anche quella delle porte, tanto quanto Berat, in Albania, dove siamo stati l’anno scorso, è la città delle mille finestre. Chissà cosa ci aspetta l’anno prossimo, Dio volendo. Prima di tutto, però, siamo andati a prendere un té speziatissimo e buonissimo proprio di fianco alle mura del forte di Stone Town, forte che qualche sito definisce arabo e qualcuno portoghese, vai poi a capire di chi fidarti. Dentro il forte, guidata da Nelly, Marina ha comprato un foulard per mia suocera, lo spoilero perché so che tanto non legge mai i miei articoli. Dopo, sempre passando di vicolo in vicolo della Medina, siamo andati a mangiare da amici indiani di Maurizio e Nelly, impediti nel mangiare dove avevano inizialmente pensato da un ramo di baobab che ha reso inagibile un altro ristorante. Immaginatevi dieci chilometri di vicoli, strade intasate di gente e motorini, mercatini, addirittura un mercato del pesce, con giusto qualche sosta che poi andrò a raccontarvi, un numero di passi non altissimo, anzi. A Milano io e Marina ce li facciamo al parco prima di iniziare a lavorare di mattina, ma che ci porterà alla sera sfiniti, per le continue soste e deviazioni. Una delle soste che faremo sarà alla cattedrale cattolica, con tanto di visita museo della cattedrale. Per museo della cattedrale, giuro, qui intendono uno sgabuzzino largo neanche due metri e lungo, che so?, sei metri, pieno di statue, oggetti sacri, documenti e fotografie senza una minima logica. Un tugurio, che chiamano museo e il cui biglietto costa circa cinquemila scellini, cioè poco meno di due euro. La chiesa è carina, curata, ma è una volta usciti che incontreremo il vero momento clou.
Mentre passavamo dentro un cortile, con me che aiuto un ragazzo a fissare una tastiera sul proprio piedistallo, ci si avvicina una ragazza di poco più di vent’anni, molto minuta e dolce nel modo di parlare. Modo di parlare in italiano, perché ha vissuto per qualche anno a Bergamo. Il suo nome è Immacolata, e ce lo dice di fronte a una cappella dedicata alla Madonna. Il nome le è stato dato in Italia, al battesimo. Questa la sua storia, e mi scuserete se per una volta sarò piatto, senza giocare con le parole. Orfana cresciuta in una missione, nel 2007 le è stata diagnosticata la leucemia. Così il prete italiano che guidava la missione l’ha fatta arrivare in Italia, da una famiglia che l’ha ospitata durante gli anni delle cure. Suo fratello italiano, ci dice, si chiama Francesco, per questo quando ci ha sentito chiamare il nostro Francesco ci si è avvicinata. Guarita è tornata a Zanzibar per studiare, ma è ancora in contatto con la sua famiglia italiana, e qualche volta è tornata a trovarli. Quando Marina, visibilmente commossa, le ha chiesto che sogno avesse, lei ha risposto senza esitare “Io ho tanti sogni”, andando poi a dirci che le piacerebbe lavorare nelle Nazioni Unite e sta studiando per quello. Le abbiamo augurato ogni bene, ci siamo fatti una foto insieme e scambiati i numeri, facendoci premettere che quando tornerà a Bergamo poi ci verrà a trovare a Milano. Non so se accadrà ma è bello pensarlo. Abbiamo poi ripreso il nostro giro, facendo compere e constatando come Maurizio sia un maestro nel trattare, un po’ perché conosce lo swahili, un po’ perché è di origini napoletane, dice, un po’ per attitudine. Vedere le sue smorfie, il suo fingere di andarsene spazientito, il suo rovesciare le proposte è stato uno spettacolo, e abbiamo comunque quasi sempre visto le cifre richieste scendere di circa un 40%. Abbiamo anche assaporato una bevanda locale a base di canna da zucchero, lime e zenzero, delicatissima e dissetantissima. Il ragazzo che ce l’ha preparata, ha passato delle canne da zucchero con dentro lime e zenzero sotto una pressa che girava ci continuo, tirandone fuori la bibita.
Abbiamo visto moschee, topi correre i fila su fili elettrici ed entrare dentro una finestra, miliardi di bambine e bambini uscire da scuola, gente che vende ogni tipo di pesce in un mercato dall’odore nauseabondo, i piedi nudi appoggiati al pesce da vendere, donne predisporre verdure e frutti coloratissimi su panni come fossero opere d’arte, e poi vicoli, moto, e gente. Gente ovunque. Un ragazzo ha approcciato Tommaso - e chi se no? - cantando canzoni di Ultimo e chiedendo di scambiarsi gli Instagram. Un altro, a tarda sera, col sole già tramontato, si tufferà sul porto di testa, mostrando muscoli alla Balotelli, nome col quale tutto noi saremo salutati tutto il giorno. Quest’ultimo, in realtà, non è un ragazzo, ma un bambino, di massimo sette anni, un fisico definito da paura, una faccia da schiaffi. Sul porto, del resto, lungo la passeggiata che lo costeggia piena di bancarelle e posti dove trovare da mangiare praticamente di tutto, ci sono dei ragazzi che si tuffano per diventare poi virali sui social. Sarà l’ultima cosa vista in città, oggi, in una girandola di visi, voci, profumi, odori, puzze, vicoli, suoni, rumori. Qualcosa di imperdibile fortunatamente accompagnato dalle parole di Maurizio e Nelly, che qui vivono dal 2019, Nelly in pianta stabile, Maurizio facendo la spola con Matemwi. Due guide eccezionali, che lungo il cammino hanno salutato centinaia di persone, perché qui se passi davanti a qualcuno che conosci e non ti fermi a salutare si offendono a morte, a riprova che tutto il mondo sarà paese ma non tutto il mondo si muove sulle stesse vibrazioni. Tornando a casa, in auto, non posso che pensare a Immacolata e a quella risposta che mi ha fatto venire in mente la canzone e di Bennato con cui questo capitolo è iniziato, Le ragazze fanno grandi sogni. Non so se sia ancora e sempre così, Immacolata di sogni ne ha tanti, le auguro di cuore di poterli realizzare tutti, se lo merita.