Per anni abbiamo pensato che il problema fondamentale del nostro paese fosse la meritocrazia. Poi però sul tema abbiamo riflettuto e ci siamo resi conto che il concetto di merito è un tantino complicato. Come stabilire, nel nostro presente liquido, chi è il più bravo? Sulla base del valore prodotto? Ma allora i “Me contro te” sarebbero cineasti più meritevoli di Martin Scorsese e scrittori più interessanti di David Foster Wallace, dal momento che i loro film vendono più biglietti e i loro libri più copie. Allora, forse, sulla base del titolo accademico? Persino la Bibbia laica del mainstream, il New York Times si è interrogato sul reale valore del college nel mondo moderno. Più che di merito, conviene allora parlare di professionalità, ovvero dell’idea, così diffusa nel mondo anglosassone, che per svolgere un mestiere, dal più importante al più umile, ci si debba prima preparare, che si debba studiare, faticare, imparare, farsi il mazzo, prima di proporsi al grande pubblico. Ecco, la professionalità in Italia è un problema, e la prova è l’ultimo giallo di Walter Veltroni. Già il titolo lascia basiti: “Buonvino tra amore e morte”, roba che a pronunciarlo, più che l’odore del fumo e della polvere da sparo tipica dei romanzi noir, si sente puzza di carciofi alla giudia, di soffritto in trattoria la domenica a Trastevere. Intendiamoci: nessuno nega che quel prodigio dell’ex sindaco di Roma - politico, regista, giornalista, editorialista, documentarista, i suoi talenti sono più numerosi delle lune di Saturno - non possa scrivere un giallo (anche perché ne ha scritti altri tre). Quello che si sostiene è che per scrivere un giallo, uno dovrebbe prima approfondire quelli che sono gli stilemi che rendono un libro appartenente al genere. E il giallo, come sa chiunque ne abbia letto uno, è un genere molto codificato: quando Faletti scrisse “Io Uccido”, lo scrisse dopo aver studiato a fondo la produzione contemporanea americana, a cominciare da Jeffrey Deaver, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare un diretto coinvolgimento dell’autore americano nella scrittura. Falsità, che però dimostravano quanto Faletti si fosse calato nei meccanismi. Tutto il contrario di quello che accade con Veltroni e l’improbabile Buonvino, Soro Lello della Legge, dove i canoni del giallo sono presi a pernacchie da un intreccio elementare, da un protagonista con lo stesso charme di Pino Insegno, da una suspence pari a quella che si prova leggendo il menù degli antipasti.
Invece che curarsi di sviluppare e ingarbugliare una trama coerente, sembra che il principale interesse di Veltroni sia farci capire quanto sia uomo di mondo: ogni due pagine c’è la citazione di un libro, di una serie TV, di una canzone, di un fatto di costume del recente passato. L’effetto, oltre a incatenare il libro nel presente – e condannarlo all’oblio una volta che sarà passato - è quello di chi per mangiare un panino con la porchetta tiri fuori dall’armadio l’argenteria del matrimonio: un inutile dispiego di energie che ha il solo effetto di estromettere il lettore dalla storia, di impedirgli di appassionarsi a una vicenda peraltro elementare. Esemplificativo questo passo a pagina 25: “Il sorriso di Giovanni era rimasto nella grande stanza del commissariato come quello del Gatto del Cheshire di Alice nel Paese delle Meraviglie. Un sorriso che, come nella storia di Carroll, faceva da guida per il lavoro degli agenti”. Quaranta parole di caciara per non dire nulla, e sì che il giallo avrebbe come caratteristica fondamentale la precisione del linguaggio, la ricerca dell’aggettivo giusto e di quello soltanto. Ma le cose peggiorano quando il Prodigio molla i freni inibitori, e in pieno accordo con lo spirito dei tempi, entra a gamba tesa nella narrazione per insegnarci il Bene. Clamoroso a pagina 41, quando, completamente a caso, Elon Musk è definito “odioso”. Perché? Così, perché al Prodigio sta antipatico e ci tiene a farcelo sapere. Ora: capiamo perché’ un editore serio come Marsilio abbia dato alle stampe un libro che, fosse scritto da un esordiente, faticherebbe a essere accettato anche a un concorso di provincia. Di libri se ne vendono pochi, e a Walter Veltroni, Ayatollah della cultura italiana, un’ospitata in TV nessuno la può negare.
Quello che preoccupa, piuttosto, sono le 150 mila copie che la serie del commissario Buonvino ha venduto finora. Finché sono i bambini ad acquistare il libro-gadget dello Youtuber di riferimento siamo dalle parti di un divismo insito nella società dei consumi fin dai tempi di Elvis Presley e Marilyn Monroe – anche noi, da ragazze, avevamo in camera il poster dei Take That preso dal Cioè. Ma che adulti di cinquanta o sessant’anni, l’intero pubblico di “Che Tempo che fa”, comprino libri così dilettanteschi significa che il Paese, nel suo complesso, ha accettato il dilettantismo al punto da non essere più in grado di riconoscerlo. E infatti è pieno di serie TV scritte da persone che non hanno mai preso in mano un libro di sceneggiatura, di film finanziati dal Ministero girati da gente che non saprebbe trovare il bottone on-off sulla camera. Sembrerebbe una questione minore: in fondo si parla di intrattenimento, di storie di finzione. Eppure, sono proprio quelle storie a rappresentare il modo in cui una comunità si racconta e riflette su sé stessa: e un paese in grado di produrre solo storie dilettantesche, è un paese che rischia di diventare tale in tutto quello che fa. Fortunatamente, per restare ai gialli, la Nave di Teseo sta ripubblicando l’intera opera di Giorgio Scerbanenco. Si può leggere una qualunque indagine del medico-investigatore Duca Lamberti per rendersi conto di avere a che fare con un maestro, capace – lui ucraino di Kiev - di una lingua cristallina, dove le parole sono scelte ad una ad una, tutt’altra cosa rispetto all’iperlingua mediocre con cui viene scritta la maggior parte dei best seller di oggi, fatta di collocazioni e aggettivi pescati alla rinfusa sulla Treccani. E, soprattutto, di mettere al centro la trama e i personaggi, trascinando il lettore per i capelli dentro un mondo coerente – una Milano minacciosa, dove niente è quel che sembra, tutt’altra cosa rispetto alla Roma anonima di Veltroni, un non luogo dove la gente parla come fosse la cronaca locale del Messaggero. Non troverete, in Scerbanenco, nessuna invasione di campo, nessun giudizio morale sul proprio tempo ficcato a forza nella gola del lettore. Solo piccole storie di gente comune raccontate, che grazie a quella semplicità lungamente e finemente ricercata, finiscono col risultare attuali ancora adesso, eterne come sempre capita con i lavori svolti con mestiere e passione dai professionisti.