“Scaglia una pietra per me a quella città”. Vi ho raccontato di una coppia di miei amici albanesi, che ci hanno dato alcune dritte e raccontato di una certa mentalità albanese. Sono amici nostri, Mentor e Suela i loro nomi, e uno dei loro due figli, Mattias, è uno dei migliori amici di nostro figlio Tommaso. Ma io ho anche un altro amico albanese. È a lui che stamattina ho mandato una foto della sua città, scrivendogli che passandoci lo avevo pensato e che gli mandavo un abbraccio. So bene che da qui lui è scappato, dal regime che qui vigeva, certo, dal clima di terrore che pesava sulle vite delle giovani donne, sua madre tra queste, e da un padre particolarmente violento, e il messaggio, corredato da un cuore spezzato, che mi ha mandato me lo ha semplicemente confermato. Ci sono persone che devono andarsene dalla propria terra, con tutto il dolore che questo comporta, penso a una canzone come Amara terra mia, per dire, destinate a non tornare mai più. Lanciata simbolicamente la pietra sulla città natale del mio amico, semplicemente attraversata con la macchina, senza neanche una sosta, oggi siamo andati a Berat, la città delle mille finestre. Questa cosa delle mille finestre è praticamente sempre legata al nome Berat, ovunque vi capiti di leggerlo o ascoltarlo. Un po’ come funziona per Matera e i sassi, un tempo per la mia Ancona e le incompiute, quelle di Longarini. In effetti, lo dico dopo esserci stato e averla vista, posso confermare che è una decisione piuttosto precisa, oltre che suggestiva al punto giusto. Quello che però la precisione e le suggestioni non dicono, non è il loro compito, è che Berat è una delle città, cittadina dovrei dire, più belle che io abbia mai visto. L’esser partito col sapore amaro del messaggio del mio amico non è stato un tentativo letterario di creare una aspettativa negativa per poi ribaltarla con la bellezza di un luogo, per quanto io sia qui a cantare una terra, credo che i sentimenti siano comunque destinati a vincere in un ipotetico confronto, come le forbici se incontrano carta alla morra cinese. Volevo semmai ancora una volta partire da una contraddizione, stavolta quella esattamente opposta al già citato meme del premier Rama, come cioè da un posto che ci si sta presentando molto affascinante, seppur con le mille imperfezioni che dimostra a ogni passo, affasciante anche per quelle imperfezioni, a volte, ecco, come da un posto del genere si debba o si sia dovuto scappare, rendendo impossibile ogni chance di ritorno, anche a fronte di un impensabile successo professionale che renderebbe detto ritorno una sorta di rivincita. Berat, comunque. Siccome da qualche parte si deve pur partire, dopo le due ore di auto che ci ha visto tagliare l’Albania verso l’interno, quindi lontani dal mare, al mare è previsto, o forse era previsto, ve lo saprò dire a breve, di andare per cena, sul lungomare di Valona, per poi farci un giro panoramico, fino a oggi la andiamo visto sempre e solo in auto. Peccato che oggi sia sabato, anzi il sabato prima di Ferragosto, e noi, che siamo passati da Valona, la città col peggior traffico del mondo, credo, peggio di Città del Guatemala, per dire, e a Valona ci siamo anche fermati per fare spesa, domani andremo tutto il giorno al mare e vorremmo portare il pranzo al sacco, poi affronterò la questione dei supermercati, e nel tornare a casa per farci una doccia dopo la giornata di Berat, dopo aver miracolosamente parcheggio proprio dove vorremmo poi tornare stasera, abbiamo impiegato oltre mezz’ora per fare dodici chilometri, mentre nella corsia opposta, quella che portava le auto verso il lungomare di Valona la fila di auto ferme era appunto di dodici chilometri, entrati in casa il navigatore ci dava come previsione per tornare indietro cinquanta minuti a crescere, poveri scemi siamo stati, ma siccome da qualche parte si deve pur partire, dopo le due ore di auto che ci hanno visto tagliare l’Albania verso l’interno, lontano dal mare, siamo scesi ai piedi del Castello di Berat, intenzionati a visitare prima quello e poi il resto della città.
Di cose da vedere, in entrambe le situazioni, ce ne sono parecchie, ma partire dall’antico ci sembrava coerente con la visita a una città che è comunque un luogo storico. Appena entrati, dopo aver fatto un parcheggio per cui in Italia mi frusterebbero sotto le piante dei piedi, ci si avvicina un tipo bassotto, vestito di arancione, che si propone come guida. Un’ora e un quarto di tour del castello per cinque a venticinque euro, prezzo più che onesto. Prima che si facesse avanti avevamo giusto fatto un salto nella torre sopra la porta, per le foto del paesaggio, rimirando un cavallo che nel mentre mangiava da un cassonetto ai piedi della scala coi gradini smangiati dall’usura del tempo che avevamo appena fatto. La guida si chiama Tony, come quello della barca. Il che mi fa pensare che tutti qui si chiamino Tony, o che quelli che si chiamano Tony siamo poi destinati a lavorare coi turisti. Solo che il Tony della barca girava col macchina con la targa personalizzata e il look da giocatore di padel milanese in pausa pranzo, mentre questo è decisamente più grezzo, nel look, la bassa statura sicuramente non lo aiuta a sembrare figo, operazione che riesce solo al nano del Trono di Spade, immagino. A proposito di nani, il cavallo che mangia immondizia è un cavallo piuttosto basso. Nel senso che non è un pony, ma neanche un cavallo normale. Soprattutto non ha normale, o forse sì, non mi intendo di cavalli, a questo punto credo a ragione, il pisello, di dimensioni gigantesche seppur piuttosto malconcio, con una evidente ferita sopra. Tony sembra in salute, a parte un occhio offeso, ma quel che sorprende nel sentirlo parlare un italiano perfetto, come proprietà di linguaggio e accento, è che Tony non è mai stato in Italia, né ha studiato italiano, si è limitato, parole sue, a guardare la televisione. Iniziamo il giro, e scopriamo che questa zona, come buona parte dell’antica Albania, era chiamata Illiria Berat è proprio stata fondata dagli illori. Illiria, ci dice Tony, significa popolo della libertà, senza ovviamente alcun riferimento al da poco scomparso Berlusconi. Un tempo la libertà era il principio primo che muoveva tutto qui, dice Tony, salvo poi spiegarci che di qui sono passati poi un po’ tutti, e che nei vari passaggi, i bizantini, gli ottomani e chi più ne ha più ne metta, hanno fatto e disfatto quel che c’era prima. Così dentro il castello ci sono bellissime chiese ortodosse bizantine, con icone e dipinti del maestro Onofrio e dell’allievo Nicola, lì si possono vedere sia nella chiesa dedicata alla Madonna che in quella dedicata a San Demetrio, oltre che al museo nazionale che si trova in cima al castello stesso, come i resti di ben due moschee, quella a bianca per i soldati e quella rossa, di cui resta il bel minareto, per i comandanti ottomani, “All’epoca gli ottomani facevano distinzioni gerarchiche” ci tiene a dire. Così, mentre acquistiamo una icona che rappresenta la Madonna con alle spalle una moschea e una chiesa bizantina, raro esempio antico di unione ecumenica, apprendo che c’è una bella differenza tra San Giorgio a cavallo e San Demetrio, sempre a cavallo. Perché il primo infilza con la lancia un drago, è simbolo di Ancona, lo so bene, mentre il secondo, meno ecumenico della Madonna, infilza con la lancia un moro, cioè un musulmano. Poi facciamo un giro per il dededalo di stradine, impossibile orientarcisi senza guida, credo, e vediamo la vecchia cisterna, tenuta in alto nella fortezza perché l’acqua era vita, quindi un bene più che primario. Tony, che in precedenza alla chiesa di Santa Maria ci aveva mostrato la cisterna della chiesa e fatto vedere come si raccogliesse acqua piovana, stavolta ci dice che l’acqua non era piovana, ma di sorgente, e che a portarla quassù erano gli schiavi, visto che per cavalli e somari la salita era troppo ripida. Ora, aggiunge, nella cisterna ci sono i pipistrelli, è sempre l’acqua piovana, ma nella rocca, dove ormai vivono solo duecento famiglie, tutte impiegate a titolo diverso nel turismo, oltre alle guide ci sono bar, ristoranti e tutta una serie di negozi di souvenir, in uno dei quali compriamo un paio di piatti colorati da portare per regalo, due tazze grande da caffè, altrettanto colorate, due portacenere strepitosi, a forma di bunker, uno per me e uno per Tommaso, oltre che il classico magnete. Un tempo, ci dice Tony, ci viveva molta più gente, ma i giovani se ne sono andati tutti via, o in città o emigrati all’estero. Ancora qualche aneddoto, come quando ci spiega che la classica casa del passato qui aveva la base in pietra, vestigia delle abitazioni precedenti, dove in genere si tenevano i cibi per essere conservati in fresco, la pietra fa questo effetto frigo, e la parte sopra in legno e calce, più ampia, così da avere camere più grandi. Credo sia questo il motivo delle tante, tantissime case che abbiamo visto in giro costruite solo all’ultimo piano, coi piani o il piano sotto ancor da costruire. Anche dove viviamo noi è così, in fondo, anche se il frigo c’è e ghiaccia pure bene.
Il giro finisce con la vista del panorama, che spiega in maniera inconfutabile la faccenda delle mille finestre. Intorno al fiume, infatti, ci sono due quartieri, Gorica, oltre il fiume, e Mangalem, arroccato sotto il castello, coi tetti tutti incastrati come tessere del domino, una roba strepitosa. In mezzo un paio di pongo, uno dei quali del 1700. Tutto Gorica mostra case contornate da enormi finestre, e anche Mangalem, che da quassù vediamo solo sotto forma di tetti incastrati, fa lo stesso. Tutta Berat, almeno il centro è così, del resto, finestre su finestre. La parte nuova, invece, che sta dalla parte opposta guardando il panorama è qualcosa di agghiacciante. Tony dice che quello è il ricordo del comuniamo, facendo il solo riferimento agli orrori della dittatura di tutto questo viaggio, almeno fin qui. Mi ripeto, ma rispetto alla Romania, per dire, che stigmatizza Ceausescu e il comuniamo ckn una costanza e dedizione quasi assoluta, qui sembra si sia semplicemente deciso di passarci su una mano di vernice, come quella delle palazzine che si vedono da quassù, buttate assolutamente alla cazzo. Quindi i soli segni che possiamo vedere sono questi orrori qui. Orrori estetici, per altro, perché ci sono orrendi palazzoni di case popolari, alcuni talmente brutti da sembrare quasi brutti intenzionalmente. Balconi fatti con mattoni, rotti e sbrecciati, a vista, casermoni con antenne e boiler sopra i tetti, scatole di cemento senza un minimo di gusto, anzi, con la precisa volontà di mortificare chi ci vive, evidentemente male. Il tutto a contrasto, appunto, con la bellezza del resto di Berat. Il nuovo centro, il castello e il quartieri speculari di Gorica e Mangalem. È a Gorica che mangiamo, con di fronte la chiesetta intitolata a San Michele Arcangelo, anch’essa sulla roccia e sotto il castello. Prendiamo roba di qui, Viennez, che è una specie di cordon bleu, una versione albanese della moussaka, che ora che è quasi mezzanotte, oggi ho scritto tardi, ricordate la faccenda del lungomare?, ancora mi torna su una insalata greca, con lo yogurt e i cetrioli, delle ottime polpette fritte, il tutto per neanche cinquanta euro. Finito parcheggiamo sempre da questa parte del fiume e poi andiamo in centro, a visitare la moschea e la chiesa che si trovano una di fronte all’altra in una piazza che si trova dopo un bel boulevard in ammodernamento, con diverse statue, una di una suonatrice di piffero, una di tale Karbunara, forse inventore della quasi omonima pasta, varie e eventuali. Ci sono anche i venditori di pannocchie di grano, rosolate su fornelletti a brace (a proposito di fornelletti a brace, ce n’era uno anche l’altro giorno a Karaburun, nella nostra spiaggetta privata, che cuoceva caffè proprio sotto un cartello che proibiva di accendere fuochi). Uno dei venditori di pannocchie, per altro, avrà avuto dieci anni, qualche fratello più piccolo come aiutante. Torniamo alla macchina, e facciamo un salto a Dilam, per scoprire che del borgo antico non c’è traccia, e poi ce ne torniamo a casa, con l’idea, in due ore di viaggio che ci attendono, di fermarci a fare la spesa in un supermercato. Bene, due ore e di supermercati ne abbiamo incontrati zero. Abbiamo incontrato circa cento autolavaggi, in spazi spartani con un rubinetto nei pressi, duecento Gomisteri, che sarebbero gommisti, qui le auto contano davvero più delle persone, ma zero supermercati. Ne abbiamo visti pochissimi da che siamo partiti, come fosse qualcosa di ricercato, ognuno ha l’exotica che si merita. Sappiamo che ce n’è uno sul lungomare di Valona, quello dove la polizia voleva farmi la multa l’altro giorno, ma, miracolo, cento metri prima, sempre sul lungomare ne vediamo uno che si chiama addirittura Big market, quindi andiamo lì. Per culo trovo parcheggio, ma una volta entrati scopro che di big c’è solo il nome. Per cui andiamo all’altro, facciamo spesa, poi mia moglie rimane lì e io vado a recuperare auto e figli. Per altro il tipo che stava al bancone degli affettati ci ha anche trattati di merda, fingendo di non capire cosa fosse un etto. Secondo caso di albanese stronzo dall’inizio del viaggio, esclusi tutti quelli al volante. E qui arriviamo al finale, perché torniamo a casa mettendoci una vita, coi dodici chilometri in senso opposto fermi in coda. Ci docciamo tutti, scendiamo verso il mare con la macchina per scoprire che sono quasi tutti ancora lì, quindi ci fermiamo per una pizza in un locale lì a due passi. Finito, e qui viene il bello, si fa per dire, troviamo ancora la coda delle macchine dirette verso il lungomare. Ci mettiamo anche noi in fila, e poi finiamo nella versione albanese dell’inferno, con vie e viuzze dove dovrebbero esserci parcheggi presi di assalto manco fosse una questione di vita o di morte. Incrocio una Mercedes, manco a dirlo, in una via in cui a stento il mio van si muove, e lui accelera per non dover tornare indietro, prova muscolare che attesta più che altro la totale mancanza di cervello, così costringendomi a fare delle manovre in retromarcia che non credevo esistessero, e soprattutto a insultarlo coi finestrini abbassati in un modo che dovrebbe valermi l’Oscar per la stand up comedy, se esiste. Finisce che il mare oggi lo abbiamo visto dalla macchina, e dopo un’ora e mezza ce ne torniamo verso casa, impiegandoci comunque mezz’ora. In mezzo una sosta dal benzinaio, aperto, per cambiare la luce di un fanale, fulminata. Operazione che non va a buon fine perché il benzinaio, che per altro era qui anche stamattina, dodici ore fa, prima non sa aprire il cofano, poi non sa togliere la lampadina fulminata. A Valona c’è il peggior traffico del mondo, capace che ti fai venti minuti fermo in coda e poi vedi un paio di auto superare tutti controsenso, sotto gli occhi della polizia, che per altro fanno una quantità impressionante di posti di blocco ma, esattamente come in Italia, quando mettono mano al traffico fanno danni inenarrabili. Un casino snervante, come ovunque, ma che a Valona si amplifica, rendendo il traffico devastante, per dirla alla molisana, e la città invisitabile. Quando sono al volante gli albanesi di dimostrano davvero un paese di terzomondisti, tranquillizzate romagnoli e pugliesi. Il Dio di Airbnb, quello che scrive indicazioni a caso su dove si trovano le cose sia ringraziato per averci fatto pernottare in collina, nella casa di Kostantina, lontano da tutto quel caos e con quei tramonti lancinanti.