L’epiteto “stronza” assegnato da Vincenzo De Luca a Giorgia Meloni (in una privata conversazione, si sappia, e dunque propalato da cellulare “abusivo” lì presente) politicamente ragionando vale dieci cento mille schwa. Il video di Giorgia Meloni che a Caivano, ritrovando l’antagonista, così saluta: “Presidente De Luca, sono quella stronza della Meloni, come sta?”, subito apprezzato dall'elettorato della destra al governo, dà infine misura dell'analfabetismo populista diffuso. Si ignora che non si tratti di galateo ignorato, semmai incapacità altrui deliberata nel non comprendere l’asimmetria istituzionale: tra l’essere presidente del Consiglio e un semplice amministratore, sia pure di primo rango, magari perfino decorato di “gran cordone” partenopeo. Vizi privati, pubbliche virtù. Ignorate, calpestate.
Meloni su De Luca: “È finito il tempo in cui le donne devono subire. E mi aspetto su questo di sentire anche una parola delle femministe"
Aggiungiamo che contestualmente, in tempi di liberalizzazione di ciò che i moralisti designano come “turpiloquio”, se non fosse chiaro, per secolarizzazione linguistica, il riferimento di Sua Santità Francesco, ha l’impatto di un Concilio Vaticano Terzo, si deve a Dagospia se le parole di Bergoglio non sono rimaste segrete. In apertura di sessione, l’enciclica sulla “frociaggine” di Bergoglio, pronta a surclassare la “Pacem in terris” di Giovanni XXIII sia la “Populorum progressio”di Paolo VI.
E’ la “Frociarium progressio” parafrasando la precedente.
Non sembri un dettaglio secondario, eppure, sempre in proposito, tra “stronza” e “frociaggine”, inquieta che il ceto intellettuale “di sinistra” lasci alla destra fieramente populista il monopolio linguistico, metti, del “suca” e del “suca forte” (nei giorni scorsi evocato da altro viceré della politica nazionale, Gianfranco Miccichè, anche lì si tratta di un’intercettazione) in nome di una doverosa, presunta, eleganza "civile"; così facendo ci si condanna all'irrilevanza, a produrre letteratura mediocre, insignificanti ditalini, “flatus vocis” stile Chiara Valerio. In breve, se la sinistra reputi di opporre all'anarchismo linguistico plebeo della Meloni e dello stesso pontefice, puro neo-sovversivismo delle classi dirigenti, poco importa se laico o confessionale, le ossessioni gender di Vera Gheno e il “volto santo” della trapassata Michela Murgia è attesa nell'abisso dell'irrilevanza più profonda. La Meloni è infatti la polaroid dei nostri peggiori dirimpettai votanti, a loro consustanziale, per usare un lessico cristologico, che certamente risulterà oscuro alla plebe social cui è cara proprio “solo Giorgia”, la citazione del “Maalox” in luogo d’ogni dialettica.
Ancora Meloni su De Luca: “Quello che è successo ieri ha a che fare con la questione femminile. È finito il tempo in cui le donne devono subire. E mi aspetto su questo di sentire anche una parola delle femministe". Evidentemente, la premier sembri ignorare che la si ritiene tale politicamente, non una semplice stronza “modello base”.
L’odierno “romance” del Partito democratico vede così Vincenzo De Luca, inarrivabile presidente della Regione Campania, brillare di luce e retorica propria su ogni altra figura o figurante, surclassando, impallando, per evidenza retorica la stessa Elly Schlein.
Accade per talento individuale, ancorché politico, di più, territoriale, verve, carattere, postura; De Luca è infatti un monotipo.
Se proviamo dunque a immaginare il Pd come insieme di pubbliche figure, l’unica presenza che sembri appunto sbalzarsi nell’altorilievo mediatico e perfino cerimoniale appare con vividezza, unicamente Lui.
De Luca, primo console nel Direttorio di Campania; addirittura viceré, ormai non più unicamente di se stesso. Forse perfino, proprio dopo il caso d’aver consegnato il titolo onorifico di “Stronza” Meloni, aspirante Re Imperatore d’Italia, nonché, assodato lo specifico prosaico dell’intera questione, “Duca conte”, come già l’impagabile “clamoroso” Pier Carlo ing. Semenzara della saga di Fantozzi. Citazione da prosaicità ripugnante, e tuttavia doverosa nel nostro caso.
De Luca svetta per teatrale autorevolezza
Ogni altro leader, in fieri o aspirante tale, in sua presenza, perde corpo nella Capodimonte del Nazareno, appare privo delle parole necessarie per rendere invitante il presente e il futuro dell’offerta democratica.
De Luca svetta per teatrale autorevolezza, grazia ricevuta dal proprio talento singolare, irriproducibile probabilmente fuori dal suo contesto antropologico di provenienza. Ruvo del Monte, luogo di poche anime, l’uomo ha poi trovato a Salerno, già capitale badogliana del cosiddetto Regno del Sud, l’iniziale dominio politico; già sindaco, o, come si è detto, assai di più fin dagli esordi. Indole che consente libertà di giudizio.
Gli alamari da ussaro di Gioacchino Murat nel suo caso corrispondono al blazer nero, camicia bianca, cravatta mai stridente, occhiali ordinari da infaticabile titolare di impresa unica individuale.
Nell’eloquio, De Luca mostra la stessa vivacità del principe di Bisanzio, Antonio de Curtis, campo bianco bandato di rosso, lo stemma della “sua” regione, sfondo d’ogni video messaggio da consegnare all’uditorio social. L’uomo rispondere ur-narcisisticamente al proprio sovranismo personale. Probabilmente, la Campania, dalla mancata rivoluzione del 1799 che vide la decapitazione del giovane duca illuminista Gennaro Serra di Cassano, non ha trovato ancora un proprio magnificat pienamente moderno, tuttavia il vicereame di De Luca appare saldamente ormeggiato al molo del rispetto e timore, così farebbe di sicuro notare Machiavelli nel “Principe”: il suo elettorato composto da “sudditi” ammirati.
De Luca raggiunge il tempo post-ideologico dall’avviamento del Partito comunista italiano, dando tuttavia sensazione d’essere fatto unicamente della propria materia caratteriale. De Luca, ribadiamo, concede a una propria prosa, talvolta extra-politica, ciononostante il protocollo caratteriale sembra rispettato, anche quando, in privato, dà della “stronza” alla Meloni che non lo ha ricevuto insieme alla delegazione di sindaci. Più che Totò, gli si addice la cifra di del “commendatore” Peppino De Filippo, non la maschera del domestico Pappagone servile davanti al “principale”, semmai autore di “Una famiglia difficile” (Marotta, 1977), tomo nel quale proprio Peppino mette in discussione la “santità” autoriale di suo fratello Eduardo: “Deve alla politica il successo” (sic).
De Luca non ha necessità alcuna di immaginarsi investito della carica di Segretario di Partito, egli è già, l’investitura se l’è concessa da sé, come Napoleone che pone da sé la corona imperiale sul proprio capo, trascende addirittura la nozione stessa d’appartenenza, sinistra o autoconvocazione, non vorrei ripetermi, ma l’uomo è un pezzo unico. Il suo stemma può ben figurare ormai accanto a quello di Francesco, se nel cartiglio dell’attuale pontefice abbiamo modo di leggere “Miserando Atcque Eligendo”, sia pure ormai quasi velato da “C'è già troppa frociaggine”, nel blasone di Vincenzo De Luca brilla invece il motto “Stronza” consegnato in modo imperituro, per l’eterno, alla Meloni.