Nel mondo delle automobili, c’è stato un tempo in cui la scelta di un modello raccontava chi eri. Non si trattava solo di funzionalità o prestazioni, ma di un legame profondo, quasi metafisico, tra l’uomo e la macchina. Guido Meda, in un brillante articolo su "Auto", ci riporta in quell’epoca in cui il carattere delle automobili rifletteva quello dei loro proprietari: «C’era sempre una firma metafisica, un tocco di artigianalità in quei prodotti industriali che riconoscevi dal rumore e dall’odore». Ogni dettaglio, dal pomello del cambio al cruscotto, contribuiva a costruire un'identità, un’immagine di sé stessi.
“Le francesi”, “le tedesche”, “le italiane”: il mondo delle auto era una mappa di luoghi comuni fondatissimi, che alimentavano passioni e scelte di vita. E quando arrivava il momento della prima macchina, quella decisione diventava un rito di passaggio, una dichiarazione di intenti. Per Meda, quell’occasione arrivò nel 1985. Nonostante le opzioni moderne come la Panda o la Polo, l'allora (più) giovane Guidone scelse di andare controcorrente, desiderando un’auto che fosse già “vecchia”: l'Alfa Romeo Gt Junior 1300 del 1971.
La sua scelta non era solo anticonformista, era una vera e propria affermazione di identità: «Era rossa ovviamente. Marcia, ma marciante». La Gt Junior, con il suo design iconico e il fascino senza tempo, divenne per Meda un’estensione di sé. «Fumavo le Marlboro e lei fumava olio», ricorda con ironia, descrivendo una macchina che non era solo un mezzo di trasporto, ma una compagna di vita.
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E come ogni grande amore, la relazione con l'Alfa non era priva di ostacoli. I problemi meccanici lo costrinsero a imparare rudimenti di meccanica, i viaggi erano limitati dalla mancanza di spazio, e ogni risparmio finiva in benzina e gomme.
Ma queste difficoltà non fecero che rafforzare il legame. «Con lei ero proprio l’anticonformista che volevo essere. Rumoroso ed egocentrico in compagnia e pure per la strada», scrive Meda, sottolineando come quella macchina rappresentasse la sua essenza più autentica. Perfino il volante originale, un "Helleboro", divenne un simbolo irrinunciabile, tanto da rifiutare un raffinato volante Nardi che gli era stato regalato. Ogni difetto dell’auto era accettato, perché faceva parte del suo carattere unico.
Il legame tra Meda e la sua Gt Junior si interruppe bruscamente con il furto dell'auto, un evento che segnò l'inizio di un’altra fase della sua vita: «Fu così che entrai in un tunnel da bulimico dei catorci». Ma nonostante le successive esperienze, nessuna macchina riuscì a eguagliare quella prima Alfa Romeo. Era più di un’auto: era un riflesso di ciò che Meda era e che è ancora oggi.
Questa storia ci ricorda un tempo in cui le automobili avevano un’anima, una personalità che entrava in risonanza con chi le guidava. Forse, anche se oggi il panorama automobilistico è dominato da funzionalità, sicurezza e intelligenza artificiale, c’è ancora spazio per quel legame speciale tra uomo e macchina? Forse c’è chi non ha mai smesso di desiderare che una macchina non sia solo un mezzo, ma una parte di sé.
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