Trent’anni dopo i Delta V sono ancora qui: più visionari, più lucidi, più liberi. E anche più scomodi. Sono usciti con un nuovo brano che si intitola Nazisti dell’Illinois: “Ci piacerebbe tanto riconoscere i nazisti solo nel film dei Blues Brothers – spiegano – ma i legittimi eredi sono già in circolazione. E non sono da sottovalutare”. Se pensavate che i Delta V fossero rimasti quelli di Se telefonando o Un’estate fa, preparatevi a cambiare idea. Questo è un vero pezzo di denuncia, anche se stemperato da synth ed elettronica. Un’invettiva contro l’omologazione, le scorciatoie da algoritmo e il vuoto culturale spacciato per intrattenimento di questi ultimi anni: “Oggi la cultura è diventata un bene di consumo. Anzi, forse la gente dà più attenzione a un paio di scarpe che a un libro. E poi ci stupiamo se intorno leggiamo solo cazzate?”. In tour da maggio per celebrare tre decenni di carriera con dieci date nei club, Flavio Ferri (chitarra, synth), insieme a Carlo Bertotti (synth, basso) “dai tempi delle messe in latino” e a Marti (voce), in questa intervista ci racconta perché era arrivato il momento per tornare senza timore di dire quello che pensano: “Abbiamo smesso di auto-censurarci. In passato ci veniva l’ansia se un pezzo non andava in radio. Lì abbiamo capito che stavamo diventando come quelli contro cui volevamo combattere”. Così questa non è una canzone scritta per diventare virale, anche se potrebbe succedere. È una bomba lanciata con la consapevolezza di chi sa che “abbiamo una certa”, ma che “la musica ha ancora un ruolo politico, sociale e civile. E se non dici quello che pensi, che ci stai a fare sul palco?”.

Avete presentato il brano così: “I Deejay che avremmo dovuto fermare impersonificano da un lato quella proposta musicale sempre più mediocre a cui negli anni ci siamo finitamente arresi mentre dall’altro rappresentano una metafora di una società che ha smesso di farsi domande sulla propria natura rivolgendosi esclusivamente al raggiungimento di un benessere effimero ed apparente”. Ma nessun Deejay è stato maltrattato per realizzarla, giusto?
No, assolutamente. Guarda, devo essere sincero: per fortuna abbiamo un pubblico che capisce quello che diciamo, quindi anzi, abbiamo solo ricevuto complimenti. Sai com’è, abbiamo una certa, e quindi possiamo anche permettercelo, in un certo senso. Non abbiamo delle vendette commerciali da temere. La grande libertà di poter dire quello che si pensa è tutto. Perché sennò, altrimenti, per quale motivo fai questo lavoro? A parte questo, ci vuole sempre un po’ di coraggio, almeno una buona dose.
Il pezzo, nonostante denunci la società degli algoritmi, ha anche le caratteristiche per diventare virale. Ci avete pensato?
Per niente. È uscita così. Anche perché sugli ultimi due dischi, devo dire, la grande novità è che i testi finalmente li scrive Carlo, che ha più cose da dire di me. Anzi, ha una maniera migliore di dirle, ormai. E quindi sono molto contento del fatto che siamo riusciti a esprimere cose che prima, magari, ci risultavano, almeno a me, un pochino più farraginose. Erano anche altri tempi, però io sono felicissimo di questi testi. Ne abbiamo parlato davvero tanto, perché ormai sono anni che stiamo lavorando su questi materiali. Carlo ha quattro taccuini pieni di frasi, appunti, note... E ogni parola che c’è nel disco è super pesata. E il bello è che ce ne siamo un po’ fregati di quello che una volta era intoccabile. All’interno della formula canzone siamo riusciti a mettere qualcosa che non segue i canoni classici. Quindi figo.
Il grosso problema di questa epoca è l’omologazione?
Sì, perché tanti che oggi fanno musica credo che la facciano con uno spirito completamente diverso da quello che avevamo noi. Lo trovo superficiale, ed è anche frutto di un grande problema culturale: non si ascolta più musica, non si leggono i libri, i film si consumano su Netflix. La cultura è stata ridotta a un bene di consumo, come se fosse un paio di scarpe. E anzi, probabilmente oggi c’è più attenzione per le scarpe che per un libro o un film. Questo è il vero problema. Infatti si leggono in giro tantissime cazzate, commenti superficiali,
Che è un paradosso: abbiamo tutto e spesso gratuito, eppure siamo meno creativi.
Siamo persi in una marea di roba. Non è che su internet ci siano solo bufale o fake news, assolutamente. Ci sono tantissime cose meravigliose. Ma manca la voglia di cercare. È un po’ come tanti anni fa, mi ricordo libri che avevano un successo pazzesco solo perché la gente si soffermava sui titoli in vetrina. Non entrava con la curiosità di scoprire altro. Oggi ci si accontenta della superficie, ecco. Quello è il problema.
I Delta V, come un fiume carsico, appaiono, scompaiono e poi riappaiono negli anni anche con cantanti diverse. L’unica sicurezza è il duo Ferri-Bertotti. Siete i nostri Simon & Garfunkel elettropop?
Intanto, se ci definisci “elettropop” ci offendiamo un po’ (sorride). Ma perché se penso a quel genere mi viene in mente Don’t You Want Me Baby? degli Human League. Per noi, che siamo anziani, era un pezzo molto ben confezionato, ma aveva anche poco contenuto. Per me, oggi, potremmo parlare di “cantautorato elettronico”. Io e Carlo ci conosciamo da tantissimi anni, c’erano ancora le messe in latino... Siamo nati musicalmente insieme. I primi gruppi li abbiamo messi su a 14 anni. Poi abbiamo scelto la musica come lavoro. Quindi sì, siamo legatissimi. Magari non come Simon & Garfunkel, perché loro poi hanno anche litigato, però, tra alti e bassi, siamo ancora insieme. Sappiamo sempre cosa pensa l’altro. Non abbiamo bisogno di comunicare troppo, di spiegarci i concetti. Ormai ci compensiamo e basta.
A proposito di uscire dagli schemi, il primo videoclip di Se telefonando Mtv non lo voleva mandare in onda perché statico e in bianco e nero.
Forse hanno pensato che ci ispiravamo a Tarkovsky, invece poi diventò il video italiano più programmato su Mtv nel 1998. E finché non ci provi, finché non proponi qualcosa in cui credi, fai sempre quello che fanno gli altri. Ma non hai mai la riprova che il mondo, se lo stuzzichi un po’, non sia poi così pigro. Poi c’era anche quella cosa che, tanti anni fa, le persone cambiavano i palinsesti delle radio e delle tv telefonando. Oggi non è più così. Adesso ci sono meccanismi che non tengono conto dell’opinione delle persone. Sanno che se gli dai qualcosa, alla fine lo accettano. Una volta, nei programmi radio, si chiamava in diretta. C’erano anche artisti che mandavano le loro cassette o i loro Cd e venivano passati. C’era ancora un contatto. Adesso invece quello che dovrebbe stimolare il contatto, cioè internet, è diventato un freno. Anche tu, giornalista, non apri tutte le mail degli uffici stampa. Apri quelle che conosci. Perché pensi: “Le altre saranno cazzate”. Come una volta succedeva di incontrare uno al bar che ti stava simpatico e ci parlavi. Oggi è tutto molto meno spontaneo.
Avete riportato al successo brani iconici come Se telefonando, Un’estate fa, Ritornerai, ma con Mina, Califano e Lauzi avete mai avuto contatti?
Con Franco Califano abbiamo addirittura fatto un video insieme, ci siamo sentiti per un po’ perché comunque lui era una persona super carina. Quando trovava qualcosa che gli piaceva era molto partecipativo. Ci siamo visti anche fuori da quello che era l’ambito lavorativo. Di Mina so solo che il pezzo le è piaciuto, perché il complimento è arrivato alle orecchie di qualcuno che ci conosceva. Non ci ha chiamato direttamente, ma insomma, sappiamo che ha apprezzato. E poi la cosa meravigliosa è che con Se telefonando abbiamo avuto la fortuna di conoscere Ennio Morricone. È stata un’esperienza incredibile, perché lui era una persona schietta, ti diceva cose anche terribili col sorriso sulla faccia. Quella è stata per me una delle grandi soddisfazioni. E poi, grazie alla musica, abbiamo conosciuto tanti personaggi che hanno fatto la storia: Mauro Pagani, Gianni Maroccolo, Antonio Aiazzi.
E un tour con Ornella Vanoni.
Dopo il secondo disco, nel ’99. Noi arrangiavamo i suoi pezzi e lei cantava i nostri. È stata un’esperienza divertentissima, perché lei è un vulcano. Una persona fantastica. Ti aspetteresti che fosse tutta con il freno a mano tirato e invece è super punk. Veramente fichissima.
Quindi oggi zero aspettative su quello che la vostra musica potrà generare?
Zero, tanto che non abbiamo nessuno che ci dica cosa fare, come capita a tanti gruppi. Con la Universal abbiamo un nuovo rapporto, ma loro si occupano solo della distribuzione. Non hanno nessuna influenza artistica su di noi. Siamo liberi e possiamo goderci questa libertà. Pagandone anche un po’ le conseguenze, certo. Perché quando non sei uno “yes man”, la tua vita non è facilissima. Però campiamo uguale. Carlo fa le sue cose, io produco dischi per altri artisti. Non abbiamo bisogno di stravolgere ciò che facciamo o di scendere a compromessi. Per me la libertà creativa è la cosa più importante. Poi forse, negli ultimi tempi, qualcosa si sta anche incrinando, nell’omologazione.
Come il successo inaspettato di Lucio Corsi dopo Sanremo?
Il suo caso è indicativo, però fenomeni di qualità ci sono sempre stati. Ogni tanto il sistema si accorge che rendono. L’importante è che non ti fagociti. Devi riuscire a mantenere il giudizio che avevi prima. Questo è il vero problema. Io spero che artisti come Lucio Corsi servano a dare il segnale che il mondo non è solo disperazione o musica senza senso. A Sanremo, tanti anni fa, ci sono passati anche Marlene Kuntz, Afterhours, Bluvertigo… Il problema è che queste esperienze poi non vengono mantenute nell’ambito mainstream. L’industria preferisce puntare sul personaggio, più che su quello che ha da dire.
C’è un grande “no” che avete detto nella vostra carriera?
Quando abbiamo firmato con la Ricordi nel ’97, abbiamo rinunciato all’anticipo royalties, che all’epoca era una cifra interessante, per ottenere una clausola contrattuale che ci garantisse l’ultima parola su tutto: dalle copertine, ai pezzi, a ogni scelta. Abbiamo preferito rinunciare ai soldi piuttosto che firmare qualcosa che ci avrebbe tolto libertà. Poi c’è stato un periodo in cui abbiamo iniziato ad auto-censurarci, ad avere l’ansia se un pezzo non funzionava in radio. A quel punto ci siamo fermati. Perché ci siamo accorti che stavamo iniziando a ragionare come quelli da cui volevamo distinguerci. È per questo che dico: chi ha successo deve fare attenzione. Perché rischia di pensare come quelli che lo stanno sfruttando.
Secondo te è possibile entrare nel sistema e provare a cambiarlo da dentro? Penso a Manuel Agnelli o Morgan, da X Factor ad altri contesti mainstream.
Guardiamo Trump: sta cambiando un sistema da dentro, ma è pazzo. I grandi cambiamenti, quelli veri, le conquiste sindacali o le libertà civili, sono arrivati da chi si è opposto al sistema, non da chi ci stava dentro. Certo, puoi dare segnali. Ma l’importante è non diventarne succubi. I nostri ultimi due dischi, ad esempio, sono in licenza: siamo dentro per la forma, ma stiamo fuori per la sostanza.
Per quanti ti riguarda, quali sono le produzioni di cui sei più fiero?
Guarda, tutto quello che faccio lo faccio con orgoglio e determinazione. Sono fortunato a potermi permettere di scegliere. Quindi, nel momento in cui faccio qualcosa, quella è sempre “la cosa migliore”. Nell’ultimo anno, però, sono molto contento di essere riuscito a convincere molti artisti a unirsi in un’associazione di auto-aiuto che si chiama SBAM. Ultimamente vedo tanti artisti isolarsi, fare la corsa da soli. Invece adesso si ritrovano ogni settimana, fanno riunioni online, collaborano con altre associazioni. È bellissimo. Si scambiano locali, si fanno concerti insieme. È una delle mie più grandi soddisfazioni. Da ogni artista con cui ho lavorato, famoso o no, ho imparato qualcosa.
In questa propensione alla collaborazione ti è venuta in aiuto Barcellona, la città nella quale vivi da dieci anni?
Sicuramente mi ha aiutato. Qui c’è un altro modo di pensare e di affrontare le cose. Qui c’è ancora il quartiere, ci si conosce, si parla. E soprattutto c’è una cosa che mi ha colpito: nessuno ti chiede “che lavoro fai”. A Barcellona è la domanda più cafona che potresti fare. E per me questo vuol dire tantissimo. Vuol dire accettare le persone per quello che sono, non per quello che rappresentano. In Italia o a Milano, purtroppo, questa cosa esiste ancora.

Ultima curiosità: cosa deve succedere nel mondo per far tagliare i rasta a Flavio Ferri?
Intanto, piano piano, con l’età qualche pezzo cade già da solo. Quindi ci penserà la natura. Però dovrebbe succedere una rivoluzione totale. Che domani ci svegliamo e non esistono più sovrastrutture, solo persone.
Sono un po’ come il pennacchio di Cyrano de Bergerac, il tuo simbolo di libertà?
Probabilmente sì. Ti racconto una cosa: io ho questo aspetto un po’ da punkabbestia e negli ultimi dieci anni, in Italia, almeno venticinque volte della polizia mi è capitato che una volante si affiancasse per chiedermi i documenti. E solo per l’aspetto. Qui in Spagna non mi è mai successo. Una volta un poliziotto a Barcellona mi si è avvicinato, ma per chiedermi se avevo bisogno di informazioni. Capisci la differenza? E non è che qui la polizia sia più buona. Anzi, sono tosti. Ma non ti giudicano per come appari. In Italia, invece, il problema vero è che le persone hanno sviluppato una grande paura degli altri. E questo è terribile. Un tempo non era così, potevi parlare al bar con chiunque. Noi avevamo uno studio sui Navigli, a Milano, e c’era un vecchietto, ex autista di Mina, che ci raccontava aneddoti bellissimi. Oggi se entri in un bar con i rasta ti guardano male. Se parli con qualcuno sul tram, ti risponde come se fossi uno strano. È una chiusura totale. Sarà colpa della tecnologia, dell’informazione, dell’economia, non so. Ma giudichiamo troppo per quello che sembriamo.
