Tornare ad animare le piazze, incontrarsi per condividere esperienze e accendere dibattiti sui temi più urgenti del femminismo: obiezione di coscienza, riconoscimento degli aspetti di cura della casa e della famiglia, servizi e tutele per le donne. Uscire dal “femminismo istituzionale” che tutto ingloba e neutralizza (e anche dall’appartenenza a partiti e sigle) per recuperare pratiche di lotta radicale abbandonate sono per Giulia Siviero, giornalista e saggista autrice di Fare femminismo (Nottetempo, 2024), priorità di oggi. Insomma, tornare a quel femminismo militante che ha caratterizzato la storia. E di cui Siviero racconta, tracciando un affresco che include tutte le principali azioni di lotta nel mondo e nel nostro Paese, dove hanno avuto apice negli anni Settanta. Si arriva, capitolo dopo capitolo, ai collettivi femministi contemporanei e alle azioni di Non una di meno che hanno riportato al centro della pratica, l’8 marzo, “lo sciopero produttivo e riproduttivo esistenziale”. Un’astensione globale dalla produzione e riproduzione delle donne dal lavoro: dipendente, autonomo, precario, in nero. E dal lavoro informale, quello domestico, di cura della casa e accudimento della famiglia.
Siviero, perché un libro sulle pratiche del femminismo?
Perché sono convinta che ci sia bisogno di recuperarle. Il femminismo è un movimento storico in cui pensiero, parola e pratica sono sempre andati di pari passo. Il libro nasce dalla volontà di fornire una cassetta degli attrezzi con le azioni di lotta radicale che nel tempo sono state o lasciate da parte o neutralizzate dai femminismi istituzionali e più di recente dal femminismo social, che in molti casi si riduce a una sequela di slogan.
Cosa caratterizza un’azione di lotta femminista come pratica?
Le pratiche del femminismo intrecciano pensieri e parole a un estro militante unico e spettacolare, che non si misura solo sull’ottenimento della parità, spesso cancellazione della differenza femminile, né sulla conquista di un diritto che può anche essere tolto. L’obiettivo dei femminismi radicali è ribaltare il sistema. Ma lo si fa anche attraverso azioni di rottura. Lo sciopero esistenziale, indetto da Non una di meno, è una di queste pratiche.
Dire che il femminismo è uno è quindi improprio?
Il femminismo non è monolitico. Tanto che si preferisce parlare di femminismi al plurale, che si sono prodotti nel corso della storia a partire dai processi di esclusione a cui le donne sono state sottoposte. Nel corso del tempo e dei luoghi geografici in cui si è sviluppato, il femminismo ha avuto modi, pratiche, parole, alleanze con altri movimenti e itinerari sempre differenti tra loro, persino conflittuali, molto articolati e complessi. In Europa, la divisione principale tra femminismi può essere nominata come “femminismo della parità” da una parte, e “femminismo della differenza” dall’altra.
Ci parli del femminismo della parità, del femminismo istituzionale.
Il cosiddetto “femminismo della parità” (o “femminismo di Stato”) deriva dalla prima ondata del movimento delle donne, quello emancipazionista dell’Ottocento, un processo di emancipazione femminile inteso come lotta per l’uguaglianza e per l’inclusione portata avanti in nome dell’universalità e dei diritti. È quello che nella politica istituzionale ha trovato maggiore spazio: ha interpretato e continua a interpretare il movimento delle donne nel senso di una richiesta femminile di maggiore parità e uguaglianza. Si basa sulle quote e sulle pari opportunità, sulla spartizione del potere e delle carriere. Ma non ha in alcun modo messo in discussione le forme della politica tradizionale, costruita e gestita secondo paradigmi maschili. Cosa che invece hanno fatto i femminismi più radicali.
È uguaglianza che non contempla la differenza fra uomini e donne?
Partendo dall’assunto che l’uguaglianza sia qualcosa di ovvio, noi affermiamo che le donne non aspirino a diventare come gli uomini o ad avere quello che hanno loro, ma che desiderino vivere in nome della loro differenza.
Assumere, come fa il femminismo paritario, come propria principale misura la quantità, la rivendicazione di pari diritti e l’occupazione dei vertici può portare a esiti paradossali. Il primo potrebbe essere riassunto nella frase “donna purché donna”: il fatto cioè che sia una donna a occupare quel vertice assume di per sé, e indipendentemente da chi sia, una certa importanza. Se è vero che il ruolo simbolico di una donna al potere non va sottovalutato, il genere non offre alcuna garanzia che quella donna farà una politica delle donne o sarà portatrice di un pensiero e di una pratica che potrà cambiare qualcosa per molte, molti, o l’immaginario di tutte e tutti. Non basta essere femmine per essere femministe.
Un esempio nella politica di oggi?
Giorgia Meloni. Il suo governo ha appena introdotto una misura che permette agli antiabortisti di entrare nei consultori, cioè in quelle strutture che sono i luoghi a cui principalmente le donne si rivolgono per richiedere il certificato necessario per prenotare l’interruzione volontaria di gravidanza. Meloni è una donna al potere. Ma lavora per i diritti delle donne?
Questo aspetto di prevenzione è però parte della legge 194. Non crede che sia anche corretto dar voce agli antiabortisti, così come permettere l’obiezione di coscienza dei medici?
No. È l’ennesimo tentativo di minare la libertà della donna a scegliere per sé stessa. E riguardo all’obiezione, poteva forse avere senso al momento dell’approvazione della legge, quando cioè nelle strutture pubbliche lavoravano già dei medici, degli anestesisti e degli operatori sanitari che avevano intrapreso quella carriera in un contesto in cui l’aborto era illegale. Ma non oggi. Se una persona è contraria all’interruzione di gravidanza si specializzi in dermatologia, proposta tra l’altro già avanzata da alcune statunitensi negli anni Settanta. Fare il ginecologo non è un obbligo. Come non lo è il fatto di esercitare in una struttura pubblica.
Non pensa che essere obiettore di coscienza sia espressione della propria liberta di pensiero?
Nell’ordinamento giuridico italiano sono previste tre forme di “obiezione”: al servizio militare, alla sperimentazione sugli animali e in campo sanitario. Si tratta di tre forme di obiezione ad altrettante leggi o norme che sotto l’ombrello di uno stesso nome hanno o hanno avuto significati e soprattutto conseguenze molto diverse tra loro. Nei primi due casi le conseguenze di una sottrazione personale alla norma ricadono (anche) su chi fa la scelta di sottrarsi. Per chi sceglie l’obiezione che ha a che fare con il diritto all’autodeterminazione non sono invece previsti oneri compensativi, anzi: a volte le cose sono paradossalmente ribaltate e chi non obietta spesso fatica a crescere professionalmente.
Garantire che una donna possa trovare strutture vicine in cui abortire è giusto, ma limitare la scelta di specializzazione di un futuro medico alla sua obiezione di coscienza non sarebbe limitante?
Assolutamente no. Se la coscienza di qualcuno lo rende contrario all’aborto quel qualcuno dovrebbe ripensare alle proprie scelte professionali senza imporre limiti alla libertà delle persone di abortire.
Torniamo alle pratiche da recuperare per un femminismo non istituzionale: quali sono oggi?
Quelle radicali. Di fronte all’uso violento del potere molti femminismi non hanno rinunciato alla forza, hanno rifiutato la pacificazione, praticato il conflitto, la sfida e la disobbedienza. E hanno così respinto il galateo dell’oppressione stabilito dagli oppressori, mettendo in scacco coloro che pretendono civiltà di fronte al suo esatto contrario. Non agire con tutta la forza necessaria ha finito invece per diventare funzionale alla neutralizzazione delle pratiche femministe e dei loro contenuti.
Prima ha parlato di femminismo social.
Penso che i femminismi di oggi, attraverso le istituzioni o attraverso i social, abbiano neutralizzato le pratiche più radicali del movimento per realizzare un lavoro spesso di facciata e far diventare il femminismo un fenomeno di marketing. Quello che passa attraverso i social spesso esiste solo lì, è individuale, performativo, e manca di una pratica politica collettiva, fatta di corpi e relazioni. I social andrebbero usati solo come mezzo.
Cita anche un adeguamento della donna a modelli sociali maschili. La donna può essere promotrice di un modello diverso da quello maschile?
Le donne così come tutte le soggettività che si discostano dalla norma esistono già. Sono corpi ed esistenze concrete, prima che modelli. Il punto sta proprio nel comprendere che tali corpi ed esistenze sono sovversivi di per sé, hanno un potenziale trasformativo e il potere di svelare come l’unico modello riconosciuto e considerato valido non sia affatto neutro.