Uccide l’ex marito con dodici coltellate e viene assolta. Luciana Cristallo, trentanove anni, nel 2004 durante una violenta lite accoltella a morte l’ex coniuge e padre dei suoi quattro figli, Domenico Bruno. Poi, con il suo nuovo compagno, ne getta il cadavere nel Tevere. Entrambi saranno assolti. In primo e in secondo grado dal Tribunale di Roma e con sentenza definitiva di Cassazione nel 2014. La donna, minacciata e stretta alla gola in una morsa mortale dal marito da cui si era separata, ha agito secondo la Corte per legittima difesa. Dopo vent’anni di violenze subite. Magnifico e tremendo stava l’amore, l’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone (Einaudi), rielabora questo caso atipico di cronaca nera destinato a fare giurisprudenza. Atipico non solo perché questa volta è la donna, dopo cinquantaquattro casi di femminicidi in Italia dall’inizio del 2024 (fonte femminicidioitalia.info), a uccidere il compagno ribaltando la tipologia dei ruoli maschio assassino-femmina vittima. Ma perché Luciana viene pienamente assolta. E non per mancanza di prove. Ma perché le si riconosce la legittimità della difesa. Calandrone procede a un’analisi che è insieme documentale e poetica. Un libro inchiesta sulla vicenda che a tratti diventa, però, incursione nelle pieghe più recondite dei due personaggi entrando in punta di piedi nelle sfere intime di un uomo e di una donna che si amano. Una coppia come tante, ma legata da un sentimento generato dal contrasto fra frustrazione e perdono, attrazione e repulsione, volontà di fuga e senso di colpa, luce e tenebre. Alla nota scrittrice, già autrice del best seller Dove non mi hai portata (Einaudi, finalista al Premio Strega), più che la vicenda giudiziaria interessa rintracciare negli atti processuali le motivazioni umane e legali di una sentenza d’avanguardia. Scandagliare un amore tanto malato da portare alla morte: in questo caso a quella del maschio. Un’opera “scorretta”, che non assume esclusivamente il punto di vista della donna ma si chiede chi dei due sia davvero la vittima, quale patto leghi i protagonisti e in quale oscurità si sia radicato. Non uno sguardo semplice sulla violenza ma nemmeno una condanna tout court: solo un’esposizione, quando possibile poetica, di quel “magnifico e tremendo amore” che tutti gli amanti credono diverso da quello degli altri, fino a che qualcosa non interviene e cambiarne il corso.
Calandrone, per scrivere questo romanzo-documento si è calata intimamente nei panni di entrambi. È stato difficile?
È stato commovente. Ho letto e visto tutte le interviste rilasciate da Luciana. E grazie alle testimonianze raccolte negli atti del processo ho cercato di analizzare la nascita della sua storia d’amore con Domenico. Fino a sentire quel silente e insospettabile insorgere della violenza nei suoi confronti giorno dopo giorno, di cui lei però racconta ancora oggi in modo amorevole. Mi ha colpito proprio questo aspetto contradditorio: la violenza coniugata all’amore. Non una rabbia incontenibile ma una disperazione generata dal sentimento. È stato l’incontro con questo aspetto a far emergere la parte poetica della mia scrittura.
Quale corto circuito è scattato fra i coniugi? Perché secondo lei Domenico ha cominciato a diventare violento?
Si sono sposati ed erano felici. Due persone normali di media borghesia senza alcun disagio. Ma quando Domenico si è trovato in grave difficoltà economica, ormai disoccupato, sono scattate in lui frustrazione, gelosia e invidia. Temeva di venir salvato da lei e ha cominciato a picchiarla anche davanti ai figli. Ha continuato per anni. Luciana, donna bella, intelligente, volitiva e forte, ci ha messo vent’anni per decidere di separarsi e di rifarsi una nuova vita. In questo aspetto sta tutta la contraddizione del loro rapporto. Perché non lo ha fatto prima?
Appunto, perché?
Luciana continuava ad amarlo. E anche lui ad amare lei, con un sentimento sempre più corrotto. Ma quando durante un incontro fra i due, ormai separati, la donna è stata stretta alla gola senza scampo, è riuscita a impugnare un coltello e lo ha ucciso. Poi, con il nuovo compagno (anche lui giudicato innocente, ndr) ne ha gettato il cadavere nel Tevere. Un mese dopo la Polizia, a seguito del ritrovamento del corpo e dei riscontri raccolti sulla base delle intercettazioni, è risalita alla coppia: Luciana ha confessato tutto.
In questa frase, “lei lo amava, lui l’amava” non crede di ravvisare una visione distorta dell’amore che in qualche modo giustifica la motivazione del maschio-carnefice, un cliché su cui il femminismo si batte da decenni?
Quest’uomo ha avuto una vicenda infantile complessa: non tollerava, come gran parte di quelli che fanno violenza alle compagne, l’indipendenza della sua donna. In quei momenti non riusciva più a capire che l’altra persona “non è tua”. Poi però tornava in sé e chiedeva perdono. La difficoltà era in questo suo accecamento. Entrando a fondo dentro la storia, dal grande amore progettuale fino alla violenza, piano piano prende forma un rapporto a due dove il mondo circostante scompare. Entrambi erano avvinti dal senso di colpa, Luciana era avvinghiata a un sogno che non voleva morire: l’amore perfetto per sempre. Ancora oggi, dopo quarant’anni dal primo incontro con lui, piange per la sua mancanza benché lo abbia ammazzato: ancora lo ama. È atroce e non si può fingere di non vedere. Nel percorso emotivo io do spazio a entrambi, colgo anche le fragilità di Domenico, i suoi impulsi e provo a decifrarli. E colgo le difficoltà di Luciana di smettere di sperare nel costante ritorno all’origine di quell’amore che sembrava perfetto.
Perché Luciana ha atteso vent’anni per ribellarsi?
Era avvinta dalla ripetizione dell’innamoramento. Dal continuo ricominciamento dello stato di innamoramento e dal senso di colpa. Comprendeva Domenico, mostrava empatia. Non possiamo dire che tutto questo non esista. Il cuore del libro è proprio il titolo. Per me entrare nella casa dove si è consumato il reato è stato agghiacciante: sono stata investita da ciò che deve aver rappresentato per entrambi. Disperazione. L’andamento stesso del processo nei tre gradi di giudizio ha svelato una dinamica di estremo interesse per dipanare una spirale di amore e violenza in cui erano coinvolti entrambi.
Da dove viene questa distorsione dell’amore? È culturale?
Soprattutto. Questa vicenda comincia negli anni ’80. Luciana ha vissuto in una società spaccata: da una parte le istanze femministe, dall’altra le canzonette pop nelle quali si raccontava ancora la solita versione oblativa della moglie madre e del marito simbolo del rampantismo berlusconiano. Questa dicotomia fra l’immagine della donna che soffre e accetta tutto e quella della donna libera e indipendente ha creato in lei un grande conflitto. Dentro, Luciana era ancora la ragazzina sognante che aspetta la favola. Fuori, era una donna forte, indipendente e capace.
Domenico invece chi era?
Un uomo frustrato, il personaggio simbolo della crisi del patriarcato. Come afferma Lucetta Scaraffia, il patriarcato arrivato alla sua crisi mostra uomini sempre più fragili proprio perché privati dalle conquiste femminili del potere di controllo che hanno sempre esercitato. Si sono trovati di fronte a donne ignote cercando invece sostitute della madre. E sono andati in tilt. Donne indipendenti professionalmente ed economicamente, capaci. Tuttavia, mentre la società si è evoluta permettendo sempre di più l’indipendenza femminile, la loro parte emotiva non è stata in grado di effettuare quel passaggio profondo necessario.
E quindi? Cosa possiamo fare? Mandare tutti i maschi dallo psicologo?
Purtroppo, è drammatico a dirsi, ci vuole ancora del tempo e tanto lavoro culturale da fare. Io, over 50, appartengo alla prima generazione che ha figli e svolge un lavoro artistico, per esempio. Ma prima della mia generazione un lavoro artistico era possibile solo senza figli. O rinunciavi alla carriera o alla famiglia. Anche adesso, con due figli di sedici e ventitré anni, quando viaggio non vedo l’ora di tornare da loro e mi sento in colpa. Ci vuole ancora del tempo e tanto investimento. Suggerirei, proprio per prevenire la violenza sulle donne, interventi strutturati nelle scuole che insegnino quali sono i segnali di pericolo. Lezioni di psicologia e relazioni in cui si spieghi ai maschi e alle femmine come riconoscere situazioni a rischio, e lezioni sull’uguaglianza dei diritti, sulla gestione dei figli e la cura domestica in maniera equa.
Cosa pensa del governo Meloni in merito a questo?
Penso che sia il Governo che ci meritiamo. Abbiamo assistito al crollo della fiducia nella politica dagli anni ’80 in poi con l’ascesa di Berlusconi, al trionfo dell’individualismo e al proliferare dell’immagine della donna da tv commerciale, provocante e fintamente scema, che ci ha fatto tornare indietro di cinquant’anni. Una catastrofe culturale e politica. Dovremmo far conoscere ai giovani la storia delle prime donne che hanno parlato di parità. Far leggere loro Virginia Woolf.
Ma con l’avvento dei social come si fa?
Io vado come una missionaria pazza nelle classi delle scuole di Roma e trovo una fame smodata di cultura fra i ragazzi. Sanno perfettamente di non essere liberi e quando proponi loro un modo di vivere attivo e diverso fanno domande su tutto. Ho davanti a me, a volte, cinquecento studenti che chiedono la libertà di essere senza doversi etichettare in un modo o in un altro su ogni sfumatura sessuale. Divorati dall’algoritmo non leggono niente ma ricevono modelli forzati continui dai social come consumatori acritici. Se ne rendono conto perfettamente. Non hanno bisogno di etichette in questa grande e lunga fase di cambiamento del loro essere: vogliono solo rispetto per un’identità ancora in formazione. Essere ciò che non sanno di essere.