Rapsodia delle terre basse (Neri Pozza, 2024) e una storia che si fissa sulla carta in modo clandestino, roba da cantastorie o, meglio, da cantautore. Massimo Bubola, amico e coautore di molte canzoni di Fabrizio De André, romanziere, cantante, ha scritto alcuni dei brani più importanti della storia della musica italiana, da Il cielo d’Irlanda di Fiorella Mannoia a Volta la carta. La casa editrice vicentina ospita nel suo catalogo una lunga canzone senza musica, di quelle storie preziose che sembrano trasmesse a voce. Un romanzo, appunto, che non dovrebbe essere qui, che ci parla di un mondo che abbiamo disimparato, di un tempo che per molti, nell’era della gentrificazione, è sconosciuto. E, soprattutto, di uomini che non vivono per i like, le polemiche o il trend. Esseri umani fuori moda, che resistono. Abbiamo intervistato Bubola a partire da questo libro e gli abbiamo chiesto del presente, della nuova direzione della Chiesa con Papa Francesco, dei nuovi generi musicali (come la trap) e di qualche polemica del momento. Ecco cosa ci ha raccontato.
Bubola, lei non ha mai smesso di scrivere canzoni. E il suo Rapsodia delle terre basse (Neri Pozza 2024) ne è la dimostrazione. Qual è la grande forza delle ballate?
Le ballate sono la prima forma poetica della letteratura occidentale, quando non c’erano altri mezzi di informazione, come giornali, Tv o social, l’informazione la faceva la Poesia cantata. La cronaca così diventava epica, cioè una narrazione condivisa in cui tutti si riconoscevano. Possiamo pensare all’Iliade e l’Odissea di Omero come a una somma di lunghe ballate su vicende che erano accadute secoli prima, ma che parlavano profondamente al presente e al futuro della gente greca. Se pensiamo ai trovatori alla corte di Eleonora D’Aquitania nel XII secolo nel sud della Francia e allo Storytelling dei poeti cantori nell’Inghilterra elisabettiana, o ai nostri poemi epici del rinascimento come L’Orlando furioso di Ariosto o la Gerusalemme Liberata del Tasso, erano composti di strofe in metrica, suonabili e cantabili, che pur sublimando il passato, parlavano del guerresco presente.
Al cuore di Rapsodia c’è un passato che forse, in alcune parti d’Italia, può anche essere un presente. È la vita contadina, a tratti leggendaria, di chi vive lontano dal frastuono. Cosa potremmo imparare da questo mondo?
Quindi ricordo bene quell’atmosfera, le famiglie, le persone e i soprannomi e soprattutto i racconti fantasmagorici e surreali nelle aie d’estate e nelle stalle d’inverno, fatte da affabulatori contadini e narratori per elezione e generosità.Cavazzoni.Ho vissuto i primi anni della mia vita, in una grande fattoria vicino all’Adige nella bassa pianura veronese, circondato da una grande famiglia contadina e matriarcale. Il mio era un piccolo paese della bassa veronese al confine con Padova e Rovigo. Quella che definisco la Mesopotamia d’Italia cioè la terra fra i due grandi fiumi: l’Adige e il Po, che ha creato nel tempo una narrazione popolare e se vuoi anche epica, attraverso tanti scrittori come Guareschi e
Lei si sente mai frastornato dal mondo in cui viviamo?
Per niente. Mi sembra più frastornato il mondo, perché ha la memoria corta e pochi prima di parlare o emettere giudizi di qualsiasi tipo, si documentano e approfondisco le questioni che trattano. L’urgenza è interventista, per sentirsi al centro di qualcosa che turbina e ti dà l’illusione labile di farti sentire più vivo. Io sono cresciuto nella cultura dell’ascolto, perché la parola aveva un peso diverso da adesso e si era responsabili di quel che si diceva. Non si potevano lanciare sassi e nascondere poi le mani, come oggi accade spesso.
Rapsodia è stato definito un romanzo folk-rock. Oggi il rock esiste ancora?
La musica folk è tra le poche musiche e il mondo che ha creato una vera letteratura. Infatti le grandi canzoni folk sono da centinaia di anni oggetto di studio nelle università inglesi, scozzesi e irlandesi e in quelle francesi, spagnole e americane. Qualche anno fa, in un mio album, mi sono ispirato ad un’antica canzone scozzese dal titolo The Carpenter’s daughter, chiamandola La sposa del Diavolo, che Natalie Merchant aveva a sua volta rivisitato ed eseguito quasi in contemporanea. Negli anni ‘60 e ‘70 il folk ha utilizzato dei canoni musicali più elettrici e legati al rock narrativo, ma rimane una musica ideale per trasportare la poesia e l’epica, basti pensare a Bob Dylan o a Leonard Cohen.
Lei ha scritto alcune delle canzoni più importanti della storia della musica italiana. Come giudica i testi della musica trap? Potremmo definire questi artisti dei “nuovi cantautori”?
Non li conosco a sufficienza per esprimere pareri.
Don Luigi è un “parroco di provincia”. Come giudica il papato di Bergoglio, a suo modo un “pontefice di provincia”? La Chiesa è davvero cambiata secondo lei?
La chiesa cattolica è sempre stata legata a momenti di profondo rinnovamento, assieme a lunghi periodi di conservatorismi e repressione, basti pensare alla riforma francescana e cistercense e poi invece alla restaurazione del Concilio di Trento e della Controriforma. Questo papa ha un’origine contadina e piemontese, nonostante sia nato e cresciuto in Argentina, e questo aspetto a volte emerge nella semplicità e nella determinatezza delle sue decisioni e contemporaneamente nell’arguzia e nella ruvidezza di certe sue enunciazioni.
Lei è stato amico di De André e autore con lui di molte canzoni. Com’era collaborare con lui?
Quando ho iniziato a lavorare con lui ci siamo trasferiti dopo qualche mese in Sardegna nella sua casa sul mare, lì abbiamo scritto il primo album Rimini, poi nella sua nuova fattoria nell’entroterra della Gallura, dopo qualche anno abbiamo composto e scritto l’album chiamano “L’Indiano”. Lavorare con Fabrizio voleva dire soprattutto vivere insieme e confrontarsi su tante questioni da quelle poetico-letterarie a quelle politiche e sociali, fino alle questioni quotidiane che riguardavano i suoi progetti al di fuori della musica, come l’agricoltura o l’allevamento bovino. Quindi era un rapporto molto largo e variegato di confronti.
Anni fa Morgan vinse il premio Tenco per un rifacimento di un disco di De André, Non al denaro, non all’amore né al cielo. Oggi si parla molto di lui per via di molte controversie, pochissimo di lui come musicista. Lei crede sia un grande artista, un genio o un truffatore?
Non ne ho la minima idea.
Torniamo un’ultima volta al suo Rapsodia. In tutto il racconto si respira l’aria di una magia e di mistero, quasi una superstizione benevola. Lei cosa fa per tornare a respirare questa magia perduta?
Scrivo, perché le parole sono la memoria viva e perché faccio parte ancora di quella comunità, dentro il mio cuore. Questa è una delle sensazioni più quiete e appaganti che ho mai provato nella vita. Infatti sono ancora legato a quelle atmosfere e a quell’umanità che mi hanno abbracciato fin da bambino e mi hanno dato poi l’occasione di regalarle un po’ alla mia famiglia e ai miei amici. Credo che scrivere libri come questo sia per me la ferma volontà di testimoniare almeno un po’ di quella di ricchezza di sentimenti e di quella felicità, anche se vivevamo da una vita misurata e con poche cose. Il mio è quindi un tentativo di risarcimento, per chi quel mondo non ha avuto la fortuna di conoscerlo e di amarlo.