Louise Perry nel suo libro The Case Against the Sexual Revolution (Polity Press, 2022) spiega chiaramente come l’idea stessa di “rivoluzione sessuale” sia in qualche modo legata a un immaginario desiderante tipicamente maschile. Da Playboy al cinema per adulti, è ciò che i maschi vorrebbero vedere che finiamo per vedere. La chiamiamo libertà, è condiscendenza sessuale. In qualche modo siamo figli della rivoluzione sessuale, e, dunque, per Perry di un grande raggiro che ha convinto le femministe a gioire per essere diventate né più né meno che l’oggetto desiderato (o bene di consumo) dell’uomo. La filosofa della scienza femminista Helen Longino non la pensa esattamente in questo modo, poiché crede che la rivoluzione sessuale abbia portato a un superamento della morale puritana. Tuttavia condivide l’idea che il cinema per adulti sia un problema per le donne e, dunque, per la società. Longino definisce il por*o così: “Quelle rappresentazioni esplicite verbali o pittoriche di comportamento sessuale che... hanno come caratteristica distintiva la rappresentazione degradante e umiliante del ruolo e dello status della femmina umana... come un mero oggetto sessuale da sfruttare e manipolare sessualmente”. Abbiamo letto C’era una volta il corpo di Walter Siti (Feltrinelli, 2024) e abbiamo trovato un terzo punto di vista, che si estende agli influencer (maschi e femmine, poco importa): “Resta, per molti giovani in crisi occupazionale e con la testa imbottita di sogni ambiziosi, l’orgoglio di potersi definire ‘imprenditori di se stessi’. Possono considerarsi un caso particolare di influencer: invece di promuovere i prodotti degli sponsor, promuovono un prodotto della cui qualità sono i soli giudici, in un processo che mescola il narcisismo con l’automercificazione. Credono di essere i proprietari del loro mezzo di produzione, anzi il fatto di sfidare le censure perbeniste gli fornisce un’aura di eroi della libertà, e quando poi si ritrovano prigionieri delle loro scelte se ne lamentano come di un’ingiustizia. Il loro mezzo di produzione, cioè il corpo, deve obbedire a certi standard, agire secondo grammatiche di pornografia stereotipa, il modo stesso di riprodurre le immagini deve uniformarsi alle abitudini percettive del richiedente, coi filtri e le correzioni che il mercato impone; non sono più i veri proprietari del loro corpo, anzi il corpo reclamizzato in foto o in video diventa un intralcio o una zavorra quando ridiscendono a terra. Non sono imprenditori, in realtà sono sfruttatori di se stessi; e sfruttatori vigliacchi, perché si trincerano dietro l’immagine considerata un equivalente del corpo”.
Il modello influencer, almeno in Italia, è anche il modello Chiara Ferragni, dove l’etica, l’impresa e le battaglie civili sono diventate un’unica cosa, un lavoro. Eppure, nonostante l’iperconnessione quotidiana, tutto questo ha assunto i tratti dell’asocialità più di quanto si tenda a credere. Mentre un tempo (per esempio durante la rivoluzione sessuale, la lotta era quasi sempre collettiva, oggi la collettività ha lasciato il posto non all’individuo, ma a componenti di una macchina che scimmiotta la collettività e che invece mette in relazione tra loro persone che rimarranno l’uno per l’altra sempre anonime. Walter Siti lo spiega così: “Nei lavori manuali, come l’edilizia o la siderurgia, è ancora essenziale ‘dare una mano al compagno', talvolta salva addirittura la vita – lì si stringono ancora le amicizie vere. Ma nel terziario e nel tempo libero non bastano i corsi di zumba e le partite di calcetto; finisce che Skype o Instagram sono più appaganti e perfino più avventurosi, ci incontri gente che non ti aspetti. Ma fino a che punto le alleanze sui social coinvolgono i corpi? Qualcuno ha talmente tanti ‘amici’ su Facebook che non riuscirebbe mai a stringere a tutti la mano, men che meno abbracciarli. I ‘seguaci’ intravedono gli (o le) influencer soltanto da lontano. I gruppi WhatsApp, se non hanno finalità eminentemente pratiche (compiti di scuola, elezioni politiche), sono più efficaci nel bullizzare che nel prevenire un suicidio (‘non ci ha dato nessun segno, sembrava okèy’). Alleanze virtuali, più facili da sommare e da fingere, ma che un fatto tragico o semplicemente concreto disperde come trucioli a una folata di vento – e chi ci ha creduto rischia pure di passare per scemo. Più si aggrava l’impotenza sociale più aumenta il chiacchiericcio, e meno apertamente si rivela la sostanziale solitudine”. Di questa solitudine abbiamo parlato in un recente articolo (che trovate qui) sulla morte di Liam Payne, il cantante dei One Direction caduto da un balcone di un hotel a soli trentuno anni. Siamo, in altre parole, divorati dall’algoritmo. Questa nuova schiavitù, antisociale, contraddittoria è pervasiva e diffusa, tanto quanto i social. E finisce inevitabilmente per riguardare, appunto, non solo la sfera privata (il corpo, la vita di ogni giorno postata online, il cibo), ma anche quella pubblica. Così, tanto quanto gli influencer fanno i politici, i politici iniziano a fare gli influencer. Ancora Siti: “Se già la ‘galassia Gutenberg’ aveva provocato sensibili torsioni del meccanismo democratico, l’attuale ‘galassia Zuckerberg’ dà a molti l’impressione che la democrazia politica si sia calata le brache di fronte al brusio comunicativo, e che i candidati alle elezioni (di qualunque livello) debbano imitare gli influencer dei social nell’inseguire i like”.
Questo strano bisticcio tra pubblico e privato ci parla anche di una recente tendenza generazionale, quella queer. Walter Siti analizza la situazione a partire da Milano, cioè dalla culla nazionale dei nuovi atteggiamenti fluidi. In quel contesto si realizza dal vivo ciò che i social hanno in realtà plasmato online, una materializzazione del desiderio sessuale, unita a una sorta di “fallacia di Chiara Ferragani”, cioè far passare un messaggio autopromozionale come messaggio politico. “I corpi che incontro nel ‘quadrilatero della moda', qui a Milano, sono corpi in transizione; non nel senso consueto di transizione di genere, ma perché rappresentano le avanguardie dei corpi che passeggeranno quando io non ci sarò più. Però niente nostalgie conservatrici: più che altro curiosità per il futuro dei corpi nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Questi sono corpi borghesi, fashion victim, ma è a loro che guarda la classe piccola e media – anzi, i ricchi paradossalmente saranno i soli che cercheranno in viaggi esotici i corpi ‘nudi e crudi’, mentre la classe piccola e media sarà la massa di manovra per l’invasione della virtualità. Il sesso sarà sempre più online, le differenze genitali avranno sempre meno importanza culturale, l’allungamento della vita fino a centocinquant’anni e la buona salute tecnologicamente garantita consentiranno esperimenti audaci; muterà il rapporto tra principio di piacere e principio di prestazione, tra i corpi vivi e i morti sarà difficile distinguere grazie all’intelligenza artificiale”. Rispetto al capitalismo classico, la differenza non la fa più il successo. Anzi, a dire il vero. Niente fa la differenza, perché la differenza non esiste più. Siamo tutti Chiara Ferragni e, in futuro, ciò che il trend ci ordinerà di essere.