Colin Walsh ha barato, perché questo è il suo romanzo d’esordio, è vero, ma da tempo è conosciuto per i suoi racconti premiati ovunque. È considerato uno dei migliori scrittori emergenti d’Irlanda e, come si sarà capito (guardate la nostra recensione a Il giorno dell’ape dell’irlandese Paul Murray in cui consigliano anche un altro autore irlandese, Sebastian Barry; e lo si dica chiaramente qui, si dovrebbe parlare di più anche degli irlandesi Colm Tóibín e di Claire Keagan e, pure, di Edna O’Brien; e ovviamente Roddy Doyle) a noi l’Irlanda piace. Per almeno due motivi. Quella irlandese potrebbe essere la letteratura americana del nostro secolo, più raccolta, chiuse, una letteratura cioè feticcio, fatta di autori di altissimo livello che si leggono tra loro, che si conoscono, che si apprezzano, che si consigliano a vicende nelle interviste. Bene, Colin Walsh, che ha barato, ha scritto qualcosa a metà tra Stephen King e Joël Dicker. Si intitola Kala, in Italia lo ha pubblicato Fazi editore, che ha davvero scommesso su un autore giovane, su un titolo strano, questo nome e basta, e lo ha fatto curando una copertina bellissima in linea con l’originale (strategia che indubbiamente funziona e permette di avere in mano un prodotto esteticamente quasi identico alla versione originale, di certo coerente con il mercato internazionale.

La storia ha una struttura semplice: dei ragazzi, amici in adolescenza, ritornano da adulti nella loro piccola città natale, Kinlough. Una città provinciale, che ha gli odori di casa, ma anche di quel luogo da cui si era, in un certo senso, fuggiti, i colori dei tramonti che, lungo la strada che porta a Kinlough, anticipano le insegne, la monotonia paradossale dell’infanzia e dell’adolescenza, così piena e varia eppure scandita dai ritmi quotidiani della giovinezza. E un mistero, Kala, l’amica e leader del gruppo, la pazza del gruppo, la ragazza ammirata e fraintesa, che scompare. E a distanza di quindici anni un corpo, i suoi resti? Walsh gioca su tre voci narrative, quelle di Helen, Joe e Mush, ma la storia è una sola. Una storia di fratture, di invidie e anche di competizione, ma soprattutto una storia accesa, sempre tesa, calibrata alla maniera dei grandi gialli. Il contesto, l’atmosfera, a partire da quella discesa in picchiata in bici verso la strada già da una collina a fine giornata, con cui si apre il libro, è debitrice inevitabilmente al mondo dei bambini “svezzati” dal terrore di Stephen King. Ma il linguaggio, pur con delle punte più poeta e articolate, sembra essere quello di una nuova linea di scrittori di gialli che ha come massimo rappresentante Joël Dicker, soprattutto il Dicker de Il caso Harry Quebert e de Il libro dei Baltimore. Colin Walsh vuole essere diretto, chiaro, pulito. E questo alza il livello del romanzo. Anzi, proprio perché Walsh rifiuta di ricorrere ad artifici di vario genere, concentrandosi piuttosto nel distinguere i tre punti di vista in modo netto, capitolo per capitolo, senza complicare le cose, la storia acquista respiro, spazio, e fa sì che in quasi quattrocento pagine mai ci si annoi, mai si perda la presa sulla storia. Il grasso della storia, il magro della scrittura. Quello che i sommelier chiamerebbero “grip”, che tira sulla lingua, fa presa, appassiona il palato. Kala appassiona e appaga il lettore.
