Il poeta Evgenij Aleksandrovic Evtushenko scrisse: “L’unica cosa che valga sul serio è la tenerezza” e Valérie Perrin non ha solo capito cosa vuol dire, ma ha scelto di lavorare con dedizione affinché nei suoi romanzi, nonostante la violenza, l’abbandono, l’isolamento, la marginalizzazione, fosse proprio questa tenace “naturalezza” dell’intelletto, questa intelligenza di patire, questa misericordia (avere pietà, avere cuore), a contare, dopotutto o – con Victor Hugo – nonostante tutto. In Tatà (Edizioni E/O, 2024) ancora una volta a prevalere è la vicenda fatta di voci e misteri; un mistero senza mistero, a dire il vero. La seconda morte della zia Colette, che rivive però nelle registrazioni di Agnès, in una partitura che alterna la storia al presente a reminiscenze e madeleine, nel tentativo di ricostruire una storia che è in parte della protagonista, in parte della zia e in parte dell’autrice, che a Guegnon ha passato la sua infanzia. Perrin si muove ormai con facilità tra i registri che le sono propri e che abbiamo conosciuto con Cambiare l’acqua ai fiori e Tre. Stavolta in un romanzo, se possibile, ancora più intimo, domestico, privato e sentimentale, che fa da controcanto ad altre grandi opere di questi anni, alcune uscite proprio in Francia ma che, a differenza di Tatà, hanno sfruttato il genere autobiografico: penso a La regina del silenzio, di Marie Niemer.
C’è forse, dicono, una tendenza generale all’autobiografia, nonostante io sia convinto che l’autobiografia, più che una tendenza, sia una cartina tornasole, una traccia, che tocca ogni grande opera (da Balzac a, per dire, Mary Shelley). Perrin sfronda la sua competenza linguistica e continua in quel percorso di semplificazione che, a questi livelli, ti permette di passare dalla nuda parola alla nuda emozione, bilanciando le immagini più accorate appunto con questa sorta di giallo in senso debole, di thriller verista (Colette è una donna dal lavoro umile, dura, con la scorza indurita dall’abbandono; che raramente si scioglie, per esempio parlando o guardando il calcio; e anche lì, la sua squadra preferita, la squadra di Guegnon). Localismo anche dei sentimenti, dunque. E soprattutto il passato, l’infanzia, la nostalgia, cioè l’illusione che porta con sé il rimorso ma anche la gioia, un debito quindi con la propria coscienza. Agnès proverà a saldarlo.