Benito Mussolini e i fascisti sono entrati in Parlamento. Dopo gli scioperi e l’occupazione delle fabbriche da parte dei socialisti, la vecchia borghesia ha scelto di difendersi con i manganelli neri. Il terzo episodio della serie Sky M – Il figlio del secolo si apre con la nuova fase del fascismo. “L’orgia dell’indisciplina” è giunta al termine, si apre l’era dell’ordine, “il tempo dei pensatori e non dei guerrieri”. Nonostante le premesse, però, non si fermano le violenze, sintetizzate nei fatti di Sarzana del luglio del 1921, gli scontri tra i fasci e i Carabinieri reali nella città avvenuti nella provincia ligure: il bollettino segna quattordici vittime tra gli squadristi e uno tra le forze dell’ordine. Ed è anche l’era delle adunate del popolo fascista. Vengono presentati i gerarchi: Dino Grandi (Lorenzo Zurzolo), Roberto Farinacci (…), Cesare Forni e Italo Balbo (l’inventore della terapia dell’olio di ricino e del brevetto degli stoccafissi usati come mazze – interpretato da Lorenzo Zurzolo). Le anime del fascismo che formeranno il comitato centrale. “Cani rabbiosi” che il Duce (nei panni dell’“addestratore”) cercherà di trasformare in classe dirigente. Contadini, borghesi, industriali: tutti hanno paura. E la soluzione “deve” essere l’uomo forte, il capo di un fascismo “ragionevole”. Tutto e il contrario di tutto. Del resto, il Paese vuole la pace. Non la pensano così le camicie nere, che provano a riabilitare come leader del movimento il poeta Gabriele D’Annunzio. Il Duce però procede sicuro sulla sua strada, con la stretta di mano (negata) e la pacificazione con il nemico naturale, il socialismo. Uno smacco che fa vacillare Mussolini. Fondamentale in questa fase il supporto di Margherita Sarfatti (una di quelle figure malamente rappresentate nella serie secondo Marco Travaglio), che resta accanto al suo “selvaggio”. Si arriva al Congresso dei fasci di combattimento dell’8 novembre 1921, in cui il Duce si trova di fronte al suo popolo, “leoni pronti a sbranarlo” per la svolta moderata. Quale direzione prenderà il movimento? D’Annunzio o Mussolini? La via legale al potere o lo scontro frontale con la democrazia? La soluzione tiene insieme gli opposti: un partito così disciplinato da potersi trasformare in esercito all’occorrenza. “No alla violenza gratuita, sì alla violenza calcolata”. Un esercito che faccia capire a tutti “che i fascisti fanno sul serio”. Per acclamazione, il Duce rimane Duce: “Eja eja alalà”, grida la folla. Segue l’accusa (come sappiamo inascoltata) di Giacomo Matteotti in Parlamento per i fatti che stanno avvenendo nelle campagne: l’azione di squadracce che di notte infliggono punizioni e torture ai contadini. Il “prestigiatore” entra in scena, sfiduciando il governo, incapace di fermare la violenza. Vittorio Emanuele II (tra una quaglia presa dalla figlia e l’altra) affida l’incarico a Luigi Facta. “L’umiliazione più grande della mia vita”, ci dice il Duce di Luca Marinelli. Un argine insufficiente all’ascesa futura di Mussolini. Prende parola “il trasformista”. L’obiettivo? “Tutto”, o quantomeno un ministero.
La cronaca, però, si frappone tra i progetti di M. e la loro realizzazione: un rosso ha sparato e ha ucciso il camerata Federico Florio l’11 gennaio 1922. La reazione è feroce, inadeguata per una forza appena entrata in Parlamento. Il Duce teme un nuovo arresto. Da qui riprende il quarto episodio. Il re tratta con i socialisti per portarli al governo; viene indetto uno sciopero; il re è spaventato e rinuncia alla nomina dei rossi. Nel giro di pochi telegrammi la storia cambia direzione. È il momento della spallata decisiva e i cani vengono sguinzagliati. Il Duce invoca l’adunata: il 24 ottobre del 1922 il teatro San Carlo di Napoli è pieno. Per via legale o con la forza, i fascisti devono andare al potere. Prendono forma i piani dell’insurrezione. Roma deve essere circondata, i gerarchi, fermi a Perugia, essere pronti all’azione. Sono cinque i tempi della rivoluzione: occupazione degli edifici pubblici, concentrazione delle forze intorno alla capitale, ultimatum a Facta per la cessione dei poteri e presa di possesso ad ogni costo dei ministeri. Il quinto è la ritirata di emergenza nell’Italia centrale. L’insurrezione, però, è solo una finzione, ammette M./Marinelli. Le squadre d’azione, del resto, non sono pronte ad affrontare un esercito. E i generali sono convinti che al primo fuoco il fascismo cadrà. Lo sa anche il Duce: “Non si deve sparare”. Donna Rachele prepara il bagaglio del marito, mettendo mutande, calzini e un abito da sera, perché serve essere pronti a ogni evenienza. Ma Facta vuole trattare e i militari non intervengono. Mussolini chiede cinque ministeri, o tutto o niente. Il futurista non ha limiti, non pensa all’arresto, calpesta tutto ciò che sta tra lui e l’avvenire, dice Margerita Sarfatti. Ma il fallimento è possibile. Se le camicie nere si muovono troppo presto o troppo tardi l’unica alternativa, almeno sembra, è la fuga in Svizzera (“Da lì Lenin ha progettato la rivoluzione bolscevica”). E così avviene: alcune guarnigioni agiscono e il re convoca Facta. Il decreto per lo stato d’assedio è pronto. Quella notte piove, ma i fascisti veri non usano l’ombrello, cimelio borghese che indebolisce i popoli, rendendoli inabili alla rivoluzione. Benito Mussolini, Cesare Rossi e Margherita Sarfatti sono chiusi nella redazione del Popolo d’Italia, mentre fuori ci sono i fucili reali pronti a sparare. Il re rovescia il calamaio sul decreto, che non verrà mai firmato. M. ha vinto, le camicie nere marciano su Roma. Il più giovane primo ministro dell’Occidente, a tre anni dalla fondazione dei fasci, dopo sedici mesi in Parlamento Benito Mussolini è il capo del governo. “Make Italy Great Again”, dice guardando in camera. La democrazia sopravvive “per gentile concessione” del Duce. Per ora.