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“Stramalora” di Cibotto ci ricorda che la tragedia del Vajont continuerà sempre a perseguitarci

  • di Alessia Marai Alessia Marai

“Stramalora” di Cibotto ci ricorda che la tragedia del Vajont continuerà sempre a perseguitarci
La sera del 9 ottobre 1963 avvenne la tragedia della diga del Vajont, che causò la morte di quasi duemila persone. Per capire quanto accaduto dovremmo rileggere “Stramalora”, da poco ripubblicato da La nave di Teseo, il racconto del giornalista e poeta veneto Gian Antonio Cibotto, che ha raccontato il disastro, tra fango, rottami e cadaveri. Lui, poeta delle acque, ci spiega perché non dimenticare

di Alessia Marai Alessia Marai

Cosa successe la notte del 9 ottobre del 1963? Ricordiamolo attraverso le parole del “poeta delle acque”, Gian Antonio Cibotto. Non un giornalista a caso ma il più importante scrittore moderno del Polesine, uomo di cultura e intellettuale a 360 gradi. Morì nel 2017 ma senza portare con sé i suoi scritti Cronache dell’alluvione e Stramalora, poiché questi ci parlano ancora con intensa e spietata forza. Stramalora è un libro con una sua peculiare anima: è autobiografico e personale ma copre allo stesso tempo il più ampio respiro del racconto monumentale che parla agli uomini come a singoli parti di un’unica umanità. “Non ci conosciamo, eppure il fatto di essere coinvolti in un’avventura della quale è impossibile afferrare le ragioni ultime, determina uno stretto rapporto, un legame profondo”. Fu pubblicato nel 1982 ed è stato riproposto dalla casa editrice La nave di Teseo, a memoria e commemorazione della tragedia di 60 anni fa. Parliamo di cosa successe quella fatidica notte. Ci troviamo in provincia di Pordenone, nel comune di Erto e Casso. Una frana colpì la diga del Vajont, che veniva usata per la produzione di energia idroelettrica sfruttando il bacino del Piave. Ci fu un’indagine poiché la tragedia poteva essere evitata. La valle era capiente ma non adatta dal punto di vista geologico: ci furono perizie tecniche che non vennero ascoltate e denunce di giornalisti che furono ignorate. Per questo undici imputati vennero portati a processo, che si concluse con la condanna di un esponente dei vertici della Società adriatica di elettricità (Sade), poi assorbita da Enel e Montedison, e di un ispettore del Genio civile. Il racconto di Cibotto è intriso di una viscerale e impressionante forza giornalistica, che a tratti segue il fiume dello stream of consciusness, e ci permette di essere lì proprio in quei momenti, fra i suoi pensieri, a vedere la stessa terra straziata, ad assistere all’impotenza del non poter far altro che constatare l’inevitabile. Questa è la storia di un incubo in cui restiamo immersi, e dell’onda mortale che cancellò interi paesi che, perdendo tutto, presero le sembianze di un pianeta lunare. Vaghiamo insieme all’autore fra le laceranti testimonianze dei superstiti, fra i discorsi tratti dalla saggezza popolare, fra storie di animali che si comportavano in modo bizzarro perché loro avevano già capito.

Gian Antonio Cibotto
Gian Antonio Cibotto

La storia di Stramalora rivela di come Cibotto venne spedito dal direttore della rivista per la quale collaborava alla diga del Vajont. Non fu un caso: era infatti già conosciuto come “il poeta delle acque” grazie alla cronaca sulle alluvioni della sua terra del 1951. Non è onorato, non vorrebbe partire, ma lo fa comunque. Si trova fra soldati americani, alpini, carabinieri. Ovunque corpi fra i cumuli di detriti, non c’è speranza alcuna. Cibotto si fa testimone dello spirito silenzioso e caparbio della popolazione che lotta disperatamente fra giri quotidiani nei cimiteri per riconoscere i corpi e scavi senza fine tra le macerie accumulate. Annota con dovizia ogni discorso ma poi crolla, umanamente, e si allontana dalla valle. Come in un sogno, viene raccolto da un pit stop di un’auto sportiva guidata da una giova donna. Ci ritroviamo, insieme a lui, a scappare dall’inferno per ritrovarci in una dimora signorile più a valle, animata da ospiti che nulla sanno del disastro. Accolto sì, ma impotente ed estraneo poiché sa in cuor suo che non vorranno ascoltare i suoi discorsi e che, anzi, non li potrebbero tollerare. Ed è quando Cibotto, fermo nei pressi di un fiume, vede affiorare un braccio fanciullesco vittima dell’inondazione, che comprende che non potrà fuggire da ciò che ha visto, che lo porterà con sé per anni e anni e forse per sempre. Perché “morte in certi casi non vuol dire soltanto la fine dell’esistenza, vuol dire qualcosa di assai più spietato”. Questa sua memoria è quella di un giornalista che ha fatto e continua a fare scuola. Una mira unica, quella del sincero bisogno di mettersi a nudo, di mostrare paure per come sono veramente, senza fronzoli, retoriche, paradisi e inferni: Cibotto ci prende per mano e ci indica dove guardare. Questo è qualcosa che non puoi veramente dimenticare, torna a fare i conti con te anche e soprattutto quando non vuoi. Possiamo andare a caccia, correre in macchina, pensare al pranzo del domani e non cambierà nulla perché tornerà a interrogarci, ci terrà svegli la notte, ci perseguiterà finché non tenteremo di dargli un senso, di cercarlo almeno. Questa è l’avvertenza del libro memoria donatoci.

Vajont
Le immagini della tragedia

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