“Sei dimagrito”. Cesare Cremonini mi accoglie in una sala di Palazzo Parigi, a Milano, di nero vestito. E mi accoglie con queste parole. Certi artisti sanno sempre dove trovare le parole giuste per dire le cose che tu, che artista non sei, non sai dove trovare. Ecco, questo è un incipit scemo. Lo è perché gigioneggia, tenta una battuta facile, giocando sul fatto che, anche con compiacenza, difficilmente il verbo dimagrire è quello che uno a prima vista adotterebbe guardandomi, pur essendo forse vero che sono dimagrito, parliamo di etti. Di nuovo, continuo a gigioneggiare. E gigioneggio smaccatamente, perché oltre a non essere magro, è chiaro, mi ritengo anche un artista, e trovare le parole giuste è in fondo il mio mestiere da un numero sufficiente di anni per poterlo fare anche solo usando il mestiere, in assenza di ispirazione. Il fatto è che Cesare Cremonini è a Milano, a Palazzo Parigi, per un motivo specifico, l’imminente uscita del suo nuovo album, Alaska Baby, e parlare di Alaska Baby, che è esattamente il motivo per cui mi trovo qui, per altro nel bel mezzo di una giornata superimpegnativa, in coda a un filotto di interviste video per il mio format Musicleaks, otto per la precisione, e poco prima della presentazione del mio libro Aiutiamoci a casa loro, diario del mio viaggio in Albania dell’anno scorso, diario che chi segue MOW ben conosce, almeno nella sua versione smart, visto che qui ha visto la luce.
Sto tergiversando. E sto tergiversando usando una parola inconsueta, oggi, nell’era della trap e dei vocabolari di neanche trecento parole, non tanto o non solo per flexare un vocabolario decisamente più rifornito, quanto piuttosto perché a me serve tergiversare, prendere tempo distraendo con dettagli in apparenza irrilevanti, ora potrei per dire che, alla presentazione, parlando di un’incursione fatta in Macedonia del Nord mentre ero dalle parti di Pogradec, sul lago di Ocrida, indicando nel nome di Goran Pandev, cannoniere neanche troppo lontano del mio Genoa, il motivo di questa deviazione sul percorso principale, fatto che ha spinto chi moderava, l’editore Gregory Fusaro, a parlare di Darko Pancev, a sua volta della Macedonia del Nord, fatto che mi ha spinto a concludere che in Macedonia del Nord hanno un alfabeto di pochissime parole, con le quali sono costretti a giostrarsi per decidere i cognomi, Pandev, Pancev, potrei fare questo, e sarebbe un ennesimo vano tentativo di buttarla in caciara, di provare a strappare un sorriso, pur consapevole che, parlando io chiaramente di Alaska Baby, nuovo album di Cesare Cremonini, e avendo spoilerato in esergo non solo il mio essere dimagrito, o il suo dirmi che sono dimagrito, così, come modo di accogliermi, ma comunque che ci siamo visti e quindi, si suppone, che abbiamo chiacchierato, starò anche innervosendo i più, perché i più si chiederanno, anche a ragione, perché diamine io me ne stia qui a parlare di Darko Pancev e di Goran Pandev invece che delle canzoni di Alaska Baby, forse proprio Cesare uno dei rari a non chiederselo, visto il suo amore per le parole e anche per il calcio. Ecco, confesso, parlare di Alaska Baby mi mette in difficoltà, questo nonostante io sia appunto uno che lavora con le parole. Mi mette in difficoltà perché è un album che credo di poter definire epocale, e non parlo ovviamente solo relativamente alla discografia di Cesare Cremonini, comunque un artista che dei nostri tempi è centrale, anche solo a vederla dal punto di vista dei numeri credo di non dover star qui a dire perché. Mi mette in difficoltà al punto da tergiversare, perché è un album che pretende attenzione e ascolto, pur nella sua acclarata fruibilità, e perché è un album che parte da una domanda specifica, che in fondo per chi è un adulto oggi dovrebbe non essere così difficile da comprendere. Un album che arriva dopo la svolta di Cesare sul fronte live, il passaggio dai palasport agli stadi, anche Imola, con numeri pazzeschi, stan lì, mica ve li devo tornare a raccontare, ma anche dopo il passaggio post-pandemico di La ragazza del futuro, album di cui a suo tempo scrissi, album che non venne esattamente capito. E proprio di questo abbiamo parlato, perché avendo io covato la speranza, ai tempi, che gli artisti finalmente prendessero a parlare di quel che avevamo vissuto, avevo in mente l’opera meritoria di un gigante come Shonda Rhimes, che aveva in corsa cambiato tutta la linea narrativa di Grey’s Anatomy, parlando direttamente della pandemia, trovavo incredibile che da noi si parlasse di cocktail e città esotico, va bene essere alla ricerca di distrazione e di leggereza, ma Dio santo, stavamo pur vivendo un momento storicamente rilevante, come era mai possibile nessuno si prendesse briga di raccontarlo?, avevo quindi apprezzato che lui, un cantautore giovane, relativamente, e comunque di fascia alta, parlo di mercato, decidesse di parlare appunto delle nuove generazioni, andatevi a risentire La ragazza del futuro e Colibrì, oggi, pensando a quel tempo e forse quel che sto dicendo vi sarà chiaro, se non lo è già. Un lavoro che però, parole sue, non è stato capito, quindi che sul momento gli ha fatto pensare di aver toppato, non dico di aver perso il tocco, Cesare mi sembra artista piuttosto lucido in questo, ma di aver forse perso il contatto col pubblico, comunque assai presente sul fronte live. Poi è uscito Ora che non ho più te, al momento da un mese e mezzo primo nella classifica delle radio, primo da un mese e mezzo, ripeto, e comunque stabile in top 5 dei singoli, per quel che riguarda lo streaming, unico ultraquarantenne presente in una classifica che sì vede solo artisti non trap, per la prima volta da anni, ma che presenta per il resto artisti giovani, o comunque riferimento di quel pubblico giovane che in genere muove gli ascolti su Spotify e affini, una piccola rivoluzione, quella di Ora che non ho più te, e che qualcosa stesse per succede è stato evidente un po’ a tutti. Un rischio, tirare fuori una mina come quella, dal suono così internazionale, grazie anche alla collaborazione dei due co-produttori, con lo stesso Cesare, Alessandro De Crescendo e Alessio Natalizia, meglio noto tra gli appassionati di certa elettronica come NotWaving, collaborazione figlia di un viaggio fatto da Bologna a Padova, non troppa strada, vedremo poi, per ascoltare un concerto di Cosmo, lui, Alessio, meritevole di questa svolta adulta del cantautore piemontese, un rischio perché un singolo potente come quello potrebbe bruciare qualsiasi lavoro, alzando le aspettative, da una parte, accentrando su di sé l’attenzione, magari a discapito di qualche altra perla, stiamo pur sempre parlando di Cesare Cremonini. Ma Cesare è lucido, ripeto, e quindi ha giocato in apertura questo jolly, consapevole che, se possibile, nel disco che sta per uscire, Alaska Baby, c’è anche di meglio, dove per meglio intendo canzoni destinate comunque a rimanere nella storia della musica leggera, prendano appunti quei poveri sedicenti colleghi che pensano abbia senso parlare di canoni del cantautorato guardando solo agli amichetti loro. Cesare si è trovato, anche per quella faccenda di La ragazza del futuro, ma non solo per quello, nella necessità di ritrovar se stesso, il Covid è stato il Covid anche per lui, il cambio di management avvenuto proprio in quel periodo, l’ingresso nel mondo dei quarantenni, una necessità di trovare delle risposte anche esistenziali, e per farlo ha deciso di intraprendere un viaggio non solo introspettivo, ma proprio fisico, salendo prima su un aereo, diretto nella piccola isola caraibica di Antigua, e poi salendo su un auto a Miami, Florida, diretto verso nord. Un viaggio non esattamente lineare, perché per andare a nord Cesare ha prima toccato quei luoghi immaginifici della musica che lì negli Usa sono veri e propri santuari per appassionati, da Nashville a Memphis, passando per New Orleans, poi la West Coast, da Los Angeles a Seattle, infine l’Alaska, quella che poi finirà per regalare il titolo al tutto, un viaggio in solitaria, seppur accompagnato dal videomaker , già al suo fianco ai tempi del viaggio post-scioglimento dei Lunapop, ai tempi fu l’Argentina la terra dove andare a ritrovar se stesso, viaggio che diede i natali a Maggese, stavolta Fairbanks e le aurore boreali la meta finale. O forse il punto di partenza, esiste un documentario di poco più di mezzora che racconta il tutto, perché lì, circondato dal viaggio, dentro una piccola tenda, sotto una cascata di striature verdi a tagliare il cielo, Cesare ha capito che per ritrovare quel senso, quella risposta, il vero punto di partenza non poteva che essere San Luca, a due passi da casa sua, simbolo per chiunque passi dalle parti di Bologna della città felsinea, mica per caso patria di così tanti cantautori.
Nessuno, a pensarci bene, aveva fin qui dedicato una canzone specifica a San Luca, e risulta decisamente emozionante il fatto che l’abbia fatto Cesare e che abbia chiamato a cantarla al suo fianco un gigante come Luca Carboni, da poco tornato dopo un momento doloroso, in una canzone che è la quintessenza di questo lavoro, pur staccandosi da tutto il resto per suoni e composizione. Una canzone che parla di spiritualità, di vita, di senso della vita, e soprattutto di amore. Come tutte le altre tracce di questo album, a suo modo un concept, esattamente come La ragazza del futuro, lavoro che proprio oggi, in virtù di questo picco creativo, acquista ulteriore valore, fondamentale nella lineare ascesa di Cesare all’interno della storia della musica italiana. Un concept sull’amore che non è però, o non è solo, da intendersi come l’amore per una singola persona, quanto piuttosto l’amore, per sé, per il mondo, per gli altri. Se sentire San Luca è qualcosa che porta via la pelle, ho sempre dichiarato che Luca Carboni è parte portante della mia vita, che se scrivo di musica è anche per le sue canzoni, che ci regala con parsimonia e grazia da quarant’anni, celebrati nella sua Bologna proprio in questi giorni dalla mostra di quadri Rio o ario, se sentire San Luca è qualcosa che porta via la pelle, ascoltare brani quali Ragazze facili e Aurore Boreali, quest’ultima scritta e cantata con Elisa, è se possibile andare ancora più a fondo. Ragazze facili, ci sono occasioni in cui scrivere di musica è davvero difficile, perché raccontare la bellezza invece che limitarsi a indicarla è operazione che risulta a tratti frustrante, è un classico. Già adesso. Un classico nella sua produzione, che parte da Maggese, passa da Le sei e ventisei, prosegue per Nessuno vuole essere Robin, Poetica e arriva appunto fin qui, una canzone da canzoniere, e stavolta parlo di letteratura, una delle sue migliori di sempre. Aurore Boreali è la fotografia di un incontro fortunato, per loro, perché lo stimolo artistico che Elisa ha donato a Cesare, e che Cesare le ha restituito, è qualcosa di incredibilmente prezioso, raro momento di estasi. Mi fermo, non perché non ci sia altro da dire, anche solo raccontare della chiosa di Acrobati meriterebbe indubbiamente parole, come indicare la consapevolezza di essere in un momento singolare, parlo di Cesare, non di me, con un brano che funziona incredibilmente, quando si dice una hit, un album potente in uscita, i 500mila biglietti venduti del prossimo tour negli stadi, quarantaquattro anni da portare in giro con autorevolezza in un mondo nel quale i suoi coetanei o si sono persi, penso a Tiziano Ferro, o non ci sono proprio più, molti dediti a una carriera di revival di loro stessi, una pletora di ragazzini con poche parole a disposizione per dire poche cose, o spesso anche niente. La chiacchierata, flexo, è durata circa un’ora, in attesa di repliche altrove, senza il pressing di chi sa che fuori della porta c’è qualcuno che aspetta. Per capire cosa intendevo parlando di bellezza, di centralità, di fondamentale, ma anche solo di domande cui vengono date risposte, di amore, di viaggi andata e ritorno, tra qualche ora ci saranno ovunque le canzoni, molto più immediate di me. Parafrasando il brano più bello di Alaska Baby, ma stiamo parlando di sfumature, Ragazze facili, canzoni facili facili facili. Almeno da ascoltare. Per scriverle, beh, ci voleva un artista vero.