Felini, l’ultimo singolo di Marco Castello e Venerus, è esattamente questo: un piccolo miracolo acustico che vibra tra la tenerezza domestica e l’estasi cosmica. Il testo oscilla con leggerezza tra un point of view realistico, quello di un gatto, e un tono sognante, a tratti romantico, che sembra guardare il mondo dal davanzale di una finestra aperta sul tramonto.
La prima volta che ha visto il mare era in una foto. A grandezza naturale, sopra a un grattacielo. È da questa immagine surreale ma vivida che prende forma Felini, un racconto urbano e commovente costruito su dettagli piccoli ma pieni di vita: “schivavo le macchine per non morire”, “mi nascondevo tra i motori caldi per passare l’inverno”. Il punto di vista del brano è quello di un gatto randagio, ma dietro quei versi c’è l’eco di un’umanità sghemba, che ha imparato a sopravvivere con poco e a sognare moltissimo. Il gatto diventa così il simbolo di una generazione precaria, poetica, resiliente. Una generazione che “ha avuto poco”, ma che, come si canta nel finale, “ha sognato tanto”.
In questa narrazione minimalista e struggente, non c’è niente di costruito. Nessuna impalcatura pop, nessun coro posticcio, nessun effetto a coprire il silenzio. Solo una chitarra, un flauto, e due voci che si alternano con delicatezza, trovandosi e sfuggendosi come fanno i pensieri nelle sere d’estate. Castello e Venerus non cantano semplicemente: osservano, accarezzano, respirano. La loro musica è fatta d’aria e di angoli, di odori di città e malinconie da pianerottolo. È una canzone che ti viene a cercare piano, come fa un gatto curioso, e si accuccia accanto senza far rumore.
Registrato a Ortigia, in una dimensione che sembra quasi fuori dal tempo, Felini è un esperimento di semplicità radicale. La produzione è scarna, asciutta, ma è proprio questo il suo punto di forza: ogni suono ha lo spazio per esistere, ogni parola ha il tempo di sedimentare. E anche quando la voce scompare e rimane solo il ritornello strampalato, quel “ta-ra-ra-ri-ra-ra-ra” infantile e liberatorio, il brano continua a raccontare qualcosa. Forse proprio il desiderio di lasciarsi andare, di vivere il presente come un gioco o un sogno ad occhi aperti.
E poi c’è il cuore del testo, che è una piccola epica quotidiana: “Rubavo il pesce dai mercati / aspettavo sciogliersi i gelati / usavo i panni come coperte / il sole nasceva dai camini”. Scene che sembrano tratte da un film di animazione malinconico e brillante insieme, dove la fame, la solitudine e il freddo sono tradotti in immagini poetiche ma concrete. Non c’è pietismo, né compiacimento: solo la verità di chi guarda il mondo da terra, eppure continua a fantasticare sulle nuvole.
Marco Castello e Venerus si confermano anche qui come due nature apparentemente opposte, ma straordinariamente complementari: il primo con il suo approccio lo-fi, tenero e ironico; il secondo con la sua voce ipnotica e mistica, che trasforma ogni frase in una visione. Castello racconta la città, il cartone, i tombini; Venerus ci mette le sfumature dell’altrove, lo stupore, le ombre colorate. Quando si incontrano, come in questo brano, nasce una forma di musica gentile e mutaforma, che non ha bisogno di struttura né di coerenza per funzionare.
Felini è una canzone che parla del nostro modo di stare al mondo, “a fatica, ma felici”, con ironia e dolcezza. È un inno silenzioso a chi sopravvive, a chi sogna, a chi si sente randagio in una città che spesso non lascia spazio. Ma anche a chi riesce, ogni tanto, a trovare una scatola di cartone in cui sentirsi al sicuro, un raggio di sole che filtra tra le persiane, un amico con cui condividere un pezzo di strada.
E proprio perché non ha la pretesa di essere una “grande canzone”, Felini finisce per essere una delle più belle uscite italiane degli ultimi tempi. Perché è autentica. Perché è leggera senza essere superficiale. Perché ha dentro tutto: il cemento e le stelle, la fame e l’amore, la paura e la speranza. Ed è così che dovrebbe essere sempre la musica: un luogo in cui riconoscersi, anche quando si è piccoli, storti e con la coda tagliata.
