Disillusione. O forse disincanto. Comunque una parola che comincia per dis. Quando lo scorso luglio, in quel di San Siro, nel bel mezzo di un concerto stratosferico, uno dei più belli a cui colui che scrive queste parole, che poi sarei io, ha avuto il piacere di assistere negli ultimi anni, Zucchero ha proposto una nuova canzone, inedita, lasciando intendere che tale sarebbe rimasta, inedita, appunto, per l’inutilità oggi come oggi di tirare fuori nuova musica, ecco, tutti abbiamo letto tra le righe, senza neanche troppa difficoltà, disillusione e disincanto. Sue, cioè di Zucchero, che viveva sulla propria pelle, quasi incredulo, un mercato folle che guarda solo ai numeri degli streams, fregandosene di qualità e contenuti, e nostre, che eravamo lì proprio per cercare qualità e contenuti, assai presenti nel suo repertorio. Capirete quindi come, avendo letto la notizia dell’uscita di un nuovo lavoro di Zucchero, la cosa ci abbia colto piacevolmente di sorpresa, anche se di album di cover si tratta, e non di suoi brani inediti.
Ascoltare il nuovo progetto discografico di Adelmo Fornaciari, da oltre quarant’anni conosciuto come Zucchero, quindi, titolo Discover II, è stata una piacevole sorpresa anche prima che la prima canzone partisse, per altro, incidentalmente, proprio quell’inedito proposto a San Siro lo scorso luglio, Amor che muovi il sole. Piacevole sorpresa che è invece, ovviamente, diventata piacevole conferma nel momento in cui le canzoni sono partite, perché Discover II è un album di cover, certo, quindi in apparenza lavoro minore di una discografia importante, partita ormai oltre quarant’anni fa, ma è album di cover di Zucchero, e Zucchero, è noto, rende suo tutto quel che tocca, avrei detto zucchera, non fosse che zuccherare tradirebbe una dolcezza quasi mielosa che in realtà non è esattamente la cifra principale di Zucchero, né quindi di questo lavoro. Zucchero, infatti, che aveva tirato fuori Discover, il primo volume, durante il periodo più intenso del Covid, come reazione a quell’immobolismo, è andato a attingere alle quasi cinquecento canzoni che aveva scelto per quel primo lavoro, in decenni e decenni di pratica musicale di musiche che lo abbiano influenzato ne ha messe da parte parecchie, andando in un paio di casi a riscrivere il testo in italiano, in un paio a ripescare canzoni che lo vedevano tra gli autori, ma non come interprete, e in altri casi attingendo semplicemente, si fa per dire, ai repertori di artisti che molto stima e che hanno comunque regalato canzoni a noi umani che lo hanno molto colpito. Un gesto di pura passione, la pubblicazione di un album di cover, non necessario a chi gira il mondo riempiendo stadi, se non per assecondare quella pulsione primaria che è appunto l’amore per la musica, neanche solo la propria. Dimostrazione di come aver venduto decine e decine di milioni di dischi, quelli veri, che si compravano andando nei negozi e tirando fuori moneta sonante, aver suonato in tutto il mondo, letteralmente, collaborando più di chiunque altro in Italia con artisti di fama internazionale, a come essere Zucchero, quindi, non necessariamente ti abbia fatto diventare uno che guarda solo ai numeri, o forse che proprio quanto detto fin qui ti ha spinto a non diventarci, con buona pace di chi invece pensa che tenere d’occhio flussi di dati e algoritmi sia utile per costurirsi una carriera. Tornando a Discover II, seconda puntata di questa rilettura dei suoi brani “del cuore”, si parte con la già citata Amor che muovi il sole, riscrittura in italiano del brano My Own Soul’s Warning, dei The Killers, pubblicare musica nuova è oggi esercizio inutile, frustrante, forse addirittura autolesionista, ma quanto ci piace chi se ne sbatte il cazzo e addirittura mette la propria arte di paroliere al servizio delle canzoni scritte da altri. Si prosegue con Chinatown dei Bleachers, band di quel Jack Antonoff dietro buona parte del successo di Taylor Swift, qui divenuta Una come te, e poi si va avanti di cover cover, da Just Breathe dei Pearl Jam a Sailing di Rod Stewart, passando da Acquarello di Toquino, With or Without You degli U2, Set Fire to the Rain di Adele, Agnese di un mai abbastanza celebrato Ivan Graziani, Inne City Blues di Marvin Gaye, Rapsodia, che lui stesso aveva regalato ad Andrea Bocelli ai tempi di Romanza, Knockin’ on Heaven’s Door, resa quantomai morriconiana e western, Se non mi vuoi, dal repertorio di sua figlia Irene, qui impreziosita da quel fenomeno della sua corista Oma Jali, vista un giorno su Youtube, mentre gareggiava in un talent in Francia, e assoldata al volo al telefono, amore a prima vista, e la conclusiva I See A Darkness di e con Paul Young, canzone frutto di un comune momento di cupezza e depressione, avrà modo di raccontarmi in una lunga chiacchierata di cui, ça va sans dire, qui non troverete traccia. Perché a ogni uscita di un nuovo lavoro di Zucchero succede questo, ci si vede e si chiacchiera di musica, come la si faceva una volta e fortunatamente lui continua a farla anche oggi, di mercato, guardato con non troppa bonomia da nessuno dei due, di discografia, quindi nello specifico di un suo ritorno in seno alla Universal dopo qualche periodo di fredda distanza, loro che hanno tutto il suo catalogo e che anche grazie a quel suo catalogo campano da anni a capire, finalmente, che la musica non è solo quelle cagatelle che non fanno altro che mettere in circolazione, di concerti, l’anno prossimo ne farà solo una ventina, a partire dallo stadio della mia Ancona, passando poi a fare qualche Festival all’estero, l’impegno di fermarsi per scrivere, comporre, suonare, arrangiare e produrre un nuovo album di studio troppo stringente per continuare a fare il giramondo come ha ripreso a fare una volta archiviato il Covid. Si è parlato di tanto, e non poteva che essere così, perché nonostante noi non si sia esattamente coetanei, lui è del 1955, io del 1969, siamo comunque entrambi uomini del Novecento, saldamente ancorati a un’idea di arte che privilegiava l’ispirazione, non certo le mode, e entrambi convinti, provate a ascoltarvi in sequenza tutti i suoi album per credere, che ci si possa e debba necessariamente evolvere, cambiare pelle, modernizzarsi o contemporaneisizzarsi, mantenendo però la propria cifra, la propria lingua, restando cioè se stessi, e fottendosene delle stupide richieste di discografici e mercato, i fatti poi a provare che essere se stessi, se si è di talento come nel suo caso, paga assai più che mettersi a novanta gradi (chissà se si può dire o risulta offensivo per qualche categoria). Zucchero è un nostro patrimonio, se lo tenessero con cura quei discografici che hanno il culo di averlo in catalogo, e chiunque lo abbia ascoltato dal vivo ne ha avuto prova evidente, non che ascoltarlo su disco non ne sia altrettanto prova. Uno capace di fare i conti con grandissimi classici come Knockin’ on Heaven’s Door senza lasciarci le penne e al contempo di riprendere brani non necessariamente famosissimo dipingendoli dei medesimi colori di cui è piena la sua tavolozza.
Lo so, a leggermi così sono presumibilmente irriconoscibile, privo di quella vena tagliente, ironica e a volte anche crudele, con cui spesso mi piace giocare, e che comunque, al pari della bluesaggine di Zucchero è la mia cifra distintiva, ma sarà proprio una questione di anagrafe, credo che Zucchero sia davvero un artista capace di riconciliare chi come me fatica a fare i conti con una contemporaneità troppo figlia dei suonini alla moda, senza canzoni che li giustifichino dietro, troppo abituato alla bellezza che i decenni tra il 1960 e la fine degli ‘90 ci hanno regalato. Il tutto senza perdere un briciolo di freschezza e di incisività, credo uno dei rarissimi casi in Italia, e non solo qui. E no, non credo che su questo mio giudizio abbia influito il suo dirmi, mentre ci stavamo facendo una foto prima di salutarci, “Giorni fa mi sei venuto in mente, quando sono andato a salutare Robert Plant a Verona, gli somigli”. Quindi ben venga pure un po’ di sentimentalismo, il mio. E chi non lo comprende, o lo confonde con ruffianeria, attenzione non state leggendo un pezzo scritto da uno di quelli che son usi stare con la paletta alzata alla corte di Maria De Filippi, gli Amici a quattro zampe, ecco, chi non lo comprende vada pure a fare in culo, con sentimento, certo, ma a fare in culo in uno slémpito (la misteriosa parola che Zucchero canta in Partigiano Reggiano).