Valerio Visintin ha commentato le nuove stelle e la nuova guida Michelin a settant’anni dalla prima edizione. Un riferimento per il mondo della ristorazione che, tuttavia, viene accettato, secondo il critico, come puro “atto di fede”. Il motivo? I criteri non sono pubblici e spesso si premia un’idea di cucina “antiquata” e “insostenibile” come è appunto il fine dining. Anche quest’anno Antonino Canavacciuolo viene premiato, stavolta con lo “Chef Mentor Award”, assegnato a un cuoco particolarmente propenso a insegnare il mestiere. Ma anche qui ci sarebbe molto da dire.
Il “12 apostoli” di Giancarlo Perbellini vince la terza stella Michelin. Lei lo ha mai provato? Che pensa di questa assegnazione?
Non ci sono mai stato. Ma le stelle Michelin non si discutono. Impongono un atto di fede, perché vengono assegnate secondo criteri misterici. Amen.
Cresce anche il numero degli chef che ha ottenuto una stella. Ma ci sono solo tre donne. Le sembra giusto e statisticamente possibile, o c’è qualcosa che non va?
Qui la Michelin non ha colpe. C’è qualcosa che non va nel mondo dell’alta ristorazione, retrogrado, e maschilista. Le uniche donne meritevoli di benemerenze, in questa plaga extratemporale, sono le nonne degli chef.
Nei suoi giri dell’ultimo anno, c’è un ristorante, uno chef, che avrebbe meritato la stella e non l’ha ricevuta?
Non auguro la stella a nessuno. E non apprezzo chi la insegue col paraocchi, come se fosse una cosa seria. Può sembrare un paradosso, ma la maggior parte dei cuochi d’alto bordo ambisce a questa consacrazione (e al suo indotto), più che a una sala piena di clienti.
Canavacciuolo vince lo Chef Mentor Award, confermando l’immagine che abbiamo di lui dalla tv. È usuale che i cuochi siano così generosi nei confronti dei nuovi talenti e delle nuove generazioni?
Anche questo premietto non meriterebbe considerazione. Cannavacciuolo moltiplica le sue dépendance. Non avendo il dono dell’ubiquità (almeno, per ora), deve affidarsi a qualche giovane promettente. Esattamente come fanno gli altri chef d’alto bordo, impegnati analoghe espansioni commerciali. Sorprende, piuttosto, l’incontenibile passione della guida dei gommisti per lo chef napoletano. Ma si sa che a pensar male si fa peccato.
Molti ristoranti hanno invece perso la stella, spesso per un cambio di chef o semplicemente perché hanno chiuso. Si parla più volentieri dei successi, ma crede ci sia una tendenza a cessare le attività dopo qualche anno per via dei costi e spesso di una ricercatezza insostenibili?
La Michelin – e in generale il così detto fine dining - impone standard non solo insostenibili, ma anche inutili e anacronistici.
Guido Mori ha lamentato sui social il fatto che non sia facile trovare i criteri di valutazione per ottenere una stella e si chiede se ne esistano alcuni specifici: quanto viene pagata la brigada, quanto viene valutata la sostenibilità, la ricerca del gusto, l’innovazione tecnica e anche quanto viene pagato l’ispettore (ovvero: quanto può essere corruttibile). Lei che ne pensa?
Come ho avuto già modo di dire, la Michelin è lo scritto più insondabile e misterico d’ogni tempo, dopo le Centurie di Nostradamus e il Codice di Hammurabi. Non ci è dato sapere con precisione come nasca ogni anno, secondo quale processo editoriale, lungo quale prassi. Ignoriamo perché si dia pena di segnalare migliaia di ristoranti, se poi focalizza l’attenzione esclusivamente sul gruppetto santificato con il dono supremo della stella. Non sappiamo quanti siano con esattezza gli ispettori, quante cucine riescano a testare in ogni stagione, se il loro agire in incognito sia verità o leggenda, in ossequio a quale disegno strategico si muovano. D’altra parte, nessuno ci fa caso. Per dirla alla Nanni Moretti: ce la meritiamo la Michelin.