Il direttore de Il Gusto Luca Ferrua è indagato insieme ad altri quattro amministratori e manager ed è stato iscritto nel registro degli indagati per le ipotesi di corruzione e turbativa d'asta. Rischia, dunque, di essere licenziato dal Gruppo Gedi dopo quanto emerso. Ma che cosa avrebbe fatto? Avrebbe incassato del denaro tramite la società di cui è socio, ovvero la Rosfert per promuovere il piatto rappresentativo del comune nella città di Torino. Si tratta del fritto misto di Baldissero, ma i progetti non sarebbero stati realizzati quasi per nulla, e le rendicontazioni, stando alle accuse, sarebbero insufficienti, incomplete e mancanti. Ne abbiamo parlato con Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico mascherato di lungo corso del Corriere della Sera, che ci ha chiarito in quali problematiche sia incappato il collega. Poi ci ha parlato degli chef stellati, tra cui Carlo Cracco e Massimo Bottura: è solo una questione di facciata o puntano veramente alla qualità? E non si risparmia sulle stranezze della cucina milanese, tra cui la carbonara di Max Mariola, già recensita negativamente dallo chef Guido Mori.
Cosa è successo a Luca Ferrua, giornalista enogastronomico accusato di corruzione?
Stando a quel che riportano i giornali, Ferrua è indagato per corruzione e turbativa d’asta, in relazione a una vicenda che risale alla fine del 2023. L’inchiesta si riferisce alla promozione di una ricetta tipica di Baldissero, piccolo centro alle porte di Torino: il “Fricassé”, fritto misto di terra. Promozione finanziata con soldi pubblici del Comune di Baldissero e di VisitPiemonte, braccio turistico della Regione, e affidata Rosfert, società della quale Luca Ferrua è socio fondatore al 50%. In questa catena di incarichi e pagamenti, gli inquirenti ipotizzano pesanti irregolarità. Ovviamente, Ferrua non è il solo indagato. Staremo a vedere. È davvero troppo presto per trarre conclusioni.
E allora cosa non va?
Stiamo parlando di Luca Ferrua, direttore de Il Gusto, inserto del gruppo Gedi dedicato al food e connesso a La Repubblica e a La Stampa. Con la mano destra, dirige una potente e prestigiosa testata del food. Con la sinistra, gestisce una società che incassa danari organizzando eventi gastronomici per conto terzi. Un conflitto di interessi gigantesco, che diventa grave violazione deontologica quando, sulle pagine de Il Gusto, appaiono articoli e video dedicati al fritto di Baldissero. Per capirci meglio: è come se Ferrua avesse venduto sottobanco spazi del giornale che dirige, a danno dell’editore e dei lettori.
Lei lo conosce?
Non ho mai avuto questa fortuna.
La situazione si è aggravata. Che cosa si è aggiunto?
La direttora di Dissapore, Chiara Cavalleris, ha scoperto una seconda società riconducibile allo stesso Ferrua, specializzata in "social media e digital strategy". Scrive la collega: "Scrollando il profilo Instagram (da un centinaio di follower) di Spyrot, effettivamente, vengono messe in evidenza interviste a ristoratori e imprenditori gastronomici veicolate da Il Gusto, la testata del gruppo Gedi guidata (fino a pochi giorni fa) da Luca Ferrua". Chissà quanti erano a conoscenza delle attività collaterali del Ferrua. Nessuno ha mai detto nulla. Chi ha taciuto, per me, è complice. E non ci sono attenuanti che tengano.
Quanto spesso accadono episodi simili nel mondo della ristorazione?
Il giornalismo gastronomico è intessuto di cattivi esempi. Ci sono colleghi altolocati sul libro paga delle aziende. Altri svolgono il ruolo di ufficio stampa per ristoranti e marchi alimentari. Altri ancora mettono in piedi iniziative e manifestazioni, facendo la cresta sugli sponsor. Quasi tutti incassano danari, vacanze e omaggi. È un fiume carsico che non esce mai in superficie. Le cose si sanno, ma non si dicono, per un patto di reciproca omertà. Se non fosse intervenuta un’inchiesta giudiziaria, non avremmo mai saputo della Rosfert e della doppia vita professionale del Ferrua.
Ha letto le dichiarazioni di Guido Mori sulla carbonara di Max Mariola? Le condivide?
Nel corredo genetico della ristorazione c’è anche una dimensione teatrale. Mariola cavalca legittimamente quest’onda emotiva. D’altra parte, è un personaggio ad alto indice di gradimento. La gente prenota un tavolo nel suo locale per potergli stringere la mano, per fare un selfie al suo fianco. È naturale che il suo piccolo show ai fornelli abbia un peso sul conto. Il problema sono le proporzioni: 30 euro è una cifra incongrua per un locale di quella cilindrata, con tavoli ravvicinati, servizio in maniche di t-shirt e tempo contingentato (105 minuti e buona sera). E se il mattatore è assente? Lo sostituisce un anonimo cuoco di brigata. In tal caso, consiglio di applicare uno sconto del 50%.
Perché a Milano sembra che tutto sia concesso da un punto di vista dei prezzi?
Perché si vive nella bolla di un’illusione collettiva. La Milano da mangiare è una copertina patinata. Ma le pagine interne ci raccontano un’altra realtà. E proprio il settore della ristorazione è paradigma di una crisi che cova nell’ombra. I negozi sfitti anche in zone centrali, i ristoranti che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, le infiltrazioni della malavita organizzata, le moltiplicazioni miracolose di insegne alimentate dai fondi di investimento: sono sintomi di uno stato patologico che passa sotto silenzio.
La stranezza più recente che ha recensito?
Posso rispondere con la stranezza che non intendo recensire. Un nuovissimo ristorante milanese intitolato “Voglia”, che gioca la carta di un’indecenza pseudo-erotica, servendo piatti dai nomi scollacciati, degni della commediaccia all’italiana anni Ottanta: tiramelosù, sexotico, saltami addosso, horny like a rabbit.
Per non parlare degli stellati. Sono ancora in perdita come ci aveva detto? Soprattutto Cracco.
Non abbiamo aggiornamenti sui bilanci di Cracco. Ma possiamo tranquillamente dire che lo schema economico del fine dining non più è sostenibile. Semmai lo è stato. Cracco e gli altri vip televisivi hanno il vantaggio di una notorietà universale, che riempie le sale. Conquistare una cena da Bottura, dopo milioni di tentativi via web, è una medaglia al valore e alla costanza, oltre che uno status symbol. Molto altri "stellati" languono economicamente e soffrono per stare al passo folle imposto dalla guida dei gommisti. Eroica, in questo senso, la svolta di Viviana Varese, che ha dichiarato alla collega Alessandra Dal Monte del Corriere della Sera: “Voglio liberarmi dalle aspettative che si hanno su una cuoca Michelin. E mi rimetterò a fare la pizza”. Brava.
Sembra che lei non ami particolarmente gli stellati. Che esperienze ha avuto? Avrà testato sicuramente i più importanti.
Più che altro, detesto l'aggettivo “stellati”. E trovo nocivo, per gli chef e per la ristorazione italiana in generale, che ci si sottometta ai dettami e alle sollecitazioni di quella guida. Per quanto riguarda l'alta ristorazione in generale, invece, posso dire che sono stufo di quelle manfrine, degli storytelling, della creatività eletta a obbligo di legge. E della mestizia liturgica che aleggia in quelle sale.
Masterchef quanto influisce nel mito della stella?
Masterchef ha influito, in passato, nel processo di mitizzazione degli chef. Oggi è una trasmissione come altre. Fatta meglio di altre.
A proposito di Masterchef, secondo Federico Ferrero il menù stellato dello chef Yannick Alléno a 850 euro non vale davvero quella cifra. È così?
Ferrero non è l'uomo più simpatico del mondo, forse, ma conosce bene la materia e sa quel che scrive. E, in ogni caso, ha diritto di scrivere la sua opinione, così come gli chef hanno il dovere di accettare le critiche. La piantino di senza sentirsi dei miti al di sopra di ogni giudizio. Fingano umiltà, se non ce l'hanno. Sarà sempre più onorevole della spocchia.