Justin Bieber suona “cresciuto”, intimamente energizzato, in SWAG. Ha 31 anni e una biografia che lo vede attivo, sul palco, da quasi vent’anni. Bieber poteva fare la fine di un qualsiasi Jesse McCartney e invece è ancora qui con un settimo album che sa di fulmine a cielo (pressoché) sereno. Un album consapevolmente personale che arriva a quattro anni dall’ultimo Justice e appare lontanissimo dai clic facili e dalle storie da copertina. È lontana l’eco dei famigerati White Party di P Diddy, ai quali avrebbe partecipato anche un Justin Bieber appena 16enne e così imbarazzato da non chiamare più Diddy (cambiano le vocali, resta Sean Combs) al telefono. È distante Kanye West, allontanato dopo che il lingualunga aveva attaccato la moglie di Bieber, Hailey. La donna aveva criticato le magliette “White lives matter” di West che, oltre a rispondere per le rime (ci mancherebbe, sia mai che Kanye abbozzi!), aveva affondato il colpo su Hailey accusandola di essersi sottoposta a chirurgia plastica. Non ci sono tracce di vecchi tweet polemici e neppure tracce di quella reputazione di eterno babyface che Bieber, in parte, si porterà dietro finché campa. Giravi ad Amsterdam, qualche anno fa – quartiere a luci rosse –, e nelle vetrine di un paio di negozietti campeggiavano dei vibratori venduti con il claim “just in beaver” e la faccia sorridente della popstar americana stampata accanto. Oggi non avrebbero più ragione d’essere, perché oggi Bieber suona adulto e, a suo modo, profondo. Artisticamente “energizzato”, dicevamo in apertura, ma per nulla desideroso di nascondere quell’episodica stanchezza – la stanchezza della vita – sopraggiunta con i problemi di salute affrontati nel recente passato (su tutto la sindrome di Ramsay Hunt, che gli ha provocato una paralisi facciale, costringendolo a interrompere il tour mondiale).

Cosa c’è quindi dentro lo scatolone di SWAG? 21 tracce, tra brani (veri e propri) e interludi. Molta polpa, pochi effetti speciali a livello di produzione. Scopo evidente, quello di proporre un Justin Bieber “al naturale”, “così com’è”. In presa diretta. Non semplice quando si ha a che fare con una stella abituata ai tappeti sonori di un R&B pencolante fra il radiofonico e il cautamente futuristico. Si va per sottrazione, quindi. Basi asciutte. Essenziali e fighissime, diciamolo pure. Come se Justin Bieber avesse divorato e assimilato (senza conseguenti problemi gastroenterici di alcun tipo) una manciata di dischi di Mac DeMarco. Basi al profumo di demo che – a parte i beats super-old school in stile Bell Biv Devoe di “Dadz love”, per citare il brano dedicato al figlio Jack Blues – suonano come partorite in una cantina adibita a studio di registrazione. Spuntano momenti teneramente vintage, chitarre elettriche accennate e timidamente pulsanti, battiti che avvolgono il tono confessionale delle canzoni in un plaid sempre confortevole. Dijon e Eddie Benjamin – i produttori, coadiuvati da Bieber medesimo – vanno di finezza in finezza. R&B lo-fi per brani fra i quali la hit – così, a freddo – non è immediatamente individuabile? E cosi sia. Con Bieber che, a livello testuale, vola dove può. C’è l’amore per Hailey, soprattutto. E il consueto mazzo di ospiti. In cui spicca Druski, presente in due snippets (o skips) e un brano. In uno dei due interludi (“Soulful”), uno scambio di battute, in un certo senso epocale sebbene non nuovo (i wiggers – i white niggas – non nascono ora). Druski si rivolge a Bieber: “Suoni nero in questo album. La tua anima è nera. La tua pelle è bianca, ma la tua anima è nera”. Lui, quasi impercettibile, commenta solo con un reverente e surreale “grazie”. Roba da far esplodere, di botto e in un sol colpo, il generale Vannacci e Robby Giusti.

Questi dischi, gli intenditori li chiamano growers. Album talvolta un po’ pretenziosi ed eccessivamente lunghi. Più concettuali che viscerali. Leggermente noiosi. SWAG invece è destinato a crescere semplicemente perché il fan medio di Bieber avrà bisogno di più di mezz’ora per decifrarlo e goderselo. A livello di versi non c’è nulla da decodificare, sia chiaro. Messaggi semplici e digeribili senza alcuno sforzo. Si cresce, si soffre, si ama, si soffre di nuovo, ci si ammala, si fa la conta degli amici veri e si conclude che il trucco è amare ed essere fedeli. Musicalmente la storia si complica. Piacevolmente. Perché questo Bieber che sembra raccontarla “a te e solo a te” ha scelto di smorzare le luci e fare sul serio. Finalmente adulto, va ascoltato come tale.
