Serena Dandini versione scrittrice perde sempre la sua ironia, e parla con una voce più intimista ed evocativa. Anche nel suo ultimo lavoro C’era la luna (Einaudi, 2025) ci porta in un mondo di cui ormai restano poche tracce, e che si rivela sempre essere il rifugio prediletto di una generazione. Stavolta ci consegna un romanzo di formazione ambientato a Roma, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un decennio in cui le contraddizioni sociali iniziano a farsi strada con una forza che rende impossibile non schierarsi. Sara Mei ha quattordici anni e vive secondo i parametri della famiglia borghese a cui appartiene, benestante, formale, ma anche condizionata dal carattere da un padre assente e una madre completamente assorbita dal ruolo che la società le ha imposto. In questo contesto, Sara si percepisce come un’anomalia ed è impegnata a trovare una risposta alle mille domande tipiche dell’adolescenza, finché non conosce tre ragazze che le stravolgono completamente la visione del mondo: Beba, Violante e Lola. L’ingresso in quel trio sarà il punto di svolta. Da quel momento, ogni gesto si carica di senso: una sigaretta condivisa, una canzone, un’uscita notturna, una frase buttata lì. La musica diventa la colonna sonora di ogni momento, la politica una lingua nuova da imparare, la sessualità un territorio incerto e magnetico, e l’inevitabile delusione l’epilogo di una fase della vita mutevole e sfuggente, proprio come la luna.

Una semplice occhiata è più che sufficiente per capire che si tratta di quel genere di libri che garantiscono l’accesso ad una determinata schiera di appartenenza culturale. La stessa Serena Dandini ne è in qualche modo garante: sinceramente, che attenzione avrebbe un “C’era la luna” di una professoressa in pensione di un liceo di Ancona? E “C’era la luna” di una impiegata alla cancelleria del tribunale di Lucca? Dai, su. E anche gli argomenti che emergono dall’architettura del paratesto strizzano furbescamente l’occhio all’immaginario del suo target: femminismo, sessantotto, impegno, formazione. Fighettismo, insomma. L’operazione commerciale ha fatto centro, perché sin dal giorno della sua uscita, il 18 febbraio, C’era la luna è sempre stato fra i dieci libri più venduti in Italia. Si nota però il fenomeno curioso della scarsità di commenti su Amazon. Facciamo un confronto con due romanzi lanciati una settimana prima, anche se più neutri dal punto di vista del contenuto: Il giorno dell’ape e L’anniversario. Entrambi hanno già una decina di recensioni piuttosto articolate, mentre il libro di Dandini solo due commenti ridotti all’osso. Quindi?

Il libro della Dandini si possiede, si compra, si mostra, si spolvera, eventualmente si legge, ma poco se ne parla, esempio perfetto di quello che Baudrillard definiva “simulacro”: un segno dal significato assente e che rimanda solo a sé stesso. A conferma di ciò, la differenza di posizione in classifica fra il formato Kindle e il formato cartaceo, 269° posto nella prima, 120° nella seconda. Non è un caso che abbia avuto più successo nella sua forma materiale, più vicina all’ideale di oggetto di culto, non a caso prediletta da chi può permettersi generose metrature abitative in grado di contenere librerie gigantesche e dove la cultura ha una sua manifestazione visiva e quantitativa. Sempre per quanto riguarda il cartaceo (al momento in cui scrivo) C’era la Luna occupa la posizione numero 1 nella categoria Passaggio all’età adulta. Se dovessimo ricavare il valore da questo, allora ciascuno delle centinaia di migliaia di libri pubblicati ogni anno potrebbe avere una classifica dedicata in cui piazzarsi al primo posto. Dostoevskij è primo da più di un secolo nella categoria Studenti sfigati che ammazzano vecchie usuraie pensando di fare la cosa giusta, mentre Melville domina la classifica di Balene bianche inseguite da capitani senza una gamba.

In un recente post, Chiara Valerio dopo aver letto il romanzo ci invita a “non aver paura della tenerezza”. La scrittrice, che già ha toppato clamorosamente come direttrice di Più libri, più liberi, sembra ansiosa di ripetere i propri errori, uscendosene con affermazioni dalla rara capacità irritante. Evocare il valore dei buoni sentimenti è comodo in un momento della storia dove il mondo pare essere in mano a dei bulli dal grilletto facile, ma è la tipica uscita furbetta di chi lascia intendere una certa superiorità morale. Echeggia in maniera sibillina quel messaggio che piace tanto alla cricca degli autoassolti, sempre più arroccata nella propria retorica, che suona più o meno così: “Noi non siamo come tutti questi qua”, “Noi siamo così dotati intellettualmente da poterci permettere quel genere di sentimenti che i barbari intorno a noi hanno abbandonato da un pezzo”. “Noi siamo quelli che leggono i romanzi della Dandini”. Peggio della paura della tenerezza c’è solo la tenerezza usata come atteggiamento passivo aggressivo. Noi pensiamo sia meglio impiegarla in altri modi, come ad esempio, per riporre C’era la luna nel cassetto dei libri di cui sapevamo di non avere bisogno.
