Una brutta persona, di cui per proteggere la sua privacy non rivelo il nome (solo il cognome: Canaletti) mi chiede di recensire un libro dal titolo I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno di tale Davide Avolio.
Non ho mai sentito parlare del libro ma soprattutto non ho mai sentito parlare dell’autore. Mi basta però vedere la sua foto e leggere la didascalia “poeta dei social” per capire la malizia del caporedattore che, sapendo che anch’io sono una brutta persona, mi ha chiesto la recensione; ma siccome quando qualcuno mi chiede una cosa io mi impunto per fare il contrario, decido di rapportarmi al libro in modo assolutamente neutro.
Lo leggo come si trattasse di un libro come un altro, senza fare nessuna ricerca ulteriore sull’autore, animato dalle migliori intenzioni.
Verso pagina 100 però, sono obbligato a piegarmi alla logica del Petrocchi, il Gran Visir del premio Strega, secondo cui per capire un libro bastano le prime 50 pagine.
Il libro, del libro ha solo la forma: per il resto è un tema delle elementari, stiracchiato a fatica e stampato con un font sufficientemente largo per crearne un gadget da vendere ai follower dell’autore. Un testo dove lo stomaco “è in subbuglio”, dove la bellezza di una ragazzina colpisce l’io narrante “come un dardo scagliato nel petto”, dove i cavalieri sono “prodi”: dove, insomma, si può chiudere gli occhi e anticipare la parola successiva, visto il grado zero di inventiva offerto dalla scrittura (per tacere del resto).

Me la immagino così: in quel vicolo sporco, malfamato e decadente dell’editoria italiana, quei vecchi sporcaccioni della Mondadori adescano il ragazzino della faccia pulita, lo lusingano, lo convincono a “scrivere un romanzo” (mettete voi un numero di virgolette pari a quello degli editor coinvolti) con l’unico obiettivo di accalappiare i suoi numerosi follower e dare ossigeno ai conti della compagnia.
Sono combattuto: in tutto questo, l’Avolio è vittima o carnefice? Quanta consapevolezza ha avuto d’essere stato usato come mero cacciavite per far cacciare la fresca ai ragazzi che lo seguono?
La mia simpatia per i giovani italiani, costretti a campare in un Paese che li odia e fa di tutto per emarginarli, mi fa inizialmente assolvere il ragazzo. Questo povero cristo magari ci crede davvero, e gli concedo l’alibi della buona fede.
Poi però inizio a fare qualche ricerca. Intanto leggo qualche sua poesia. Mi viene in mente quando al liceo le poesie le si scriveva un po’ tutti: poi alcuni hanno messo giudizio e le hanno cestinate; altri, i più vanagloriosi, le hanno pubblicate nel sottobosco dell’editoria a pagamento, per poi pentirsene in età adulta.
Ecco: questo Avolio rappresenta perfettamente i tempi in cui viviamo, tempi in cui la mancanza di vergogna – da Lacerenza in su – è la prima qualità per imporsi all’attenzione delle masse. E così è riuscito non solo ad ammassare un seguito di oltre 700 mila persone su Tik Tok e 450 mila su Instagram, ma ad accreditarsi sui media come esperto di poesia, impegnato a discettare dell’intera tradizione poetica italiana, dall’alto di una produzione di versi di questo tipo: “Non posso credere ai tuoi occhi / non mi sembra vero / che questo tramonto esiste / e che tu non abbia mai raccolto margherite”. O di riflessioni sconvolgenti, ma per le ragioni sbagliate, come quella che consegna ai suoi profili social in occasione della Santa Pasqua del 2024: “Tutti a dire ‘Gesù sei risorto’ ‘wow, ma come hai fatto?’ ‘ti amiamo Gesù’ ma NESSUNO che dice mai: ‘come stai Gesù?’ NESSUNO”.
Le mie attenuanti generiche vacillano, soprattutto quando vedo il reel da lui postato in cui, seduto davanti al pc, si auto-riprende mentre piange dopo aver letto una recensione negativa su Amazon, mostrando una recitazione degna dei Me Contro Te e lanciando un accorato appello a non lasciare commenti negativi sul suo libro “perché io emotivamente non ce la faccio”.
Eh no, caro poeta dei social: i social vanno bene quando ti mettono il cuoricino, ma se esprimono liberamente la loro opinione devono tacere? Altro che Tik Tok: al netto del paradigma della vittima tanto caro alla Generazione Z (che vive la vita come Pippo Inzaghi i contrasti in area di rigore: in costante attesa di un pretesto per buttarsi a terra e rotolarsi facendo la vittima) siamo dalle parti della Pravda, di una concezione della libertà di espressione da primi decenni del Novecento.
Ma la perdita del garantismo la raggiungo quando leggo il Nostro, nel rispondere a un commento sotto il post in cui annunciava urbi et orbi l’uscita del libro, affermare che “pubblicare con una casa editrice” grande come Mondadori permette “di arrivare a centinaia di migliaia di persone”, prendendo una percentuale che “non è affatto bassa” (anche se ovviamente non si scrive per guadagnare, specifica in piena excusatio non petita).
E qui allora mi rassegno a fare una ricerca su GFK per sapere quanto ha venduto un titolo, per scoprire che il suo romanzo ha venduto a oggi 523 copie, cifra che dovrebbe indurre a ben altri esercizi di umiltà. E che soprattutto mi spinge a domandare a Mondadori: valeva davvero la pena sacrificare il prestigio frutto di una storia secolare per inginocchiarsi davanti agli influencer? Quel glorioso logo vale davvero la miseria di circa 9 mila euro lordi a botta? Se 1 milione e passa di follower (e un lancio in pompa magna con video ad hoc, presentazioni live, eccetera) valgono 523 copie vendute, cos’altro deve accadere perché’ vi rendiate conto che state sbagliando tutto?
Boomeroni di un’altra epoca di stanza a Segrate: sotto sotto, a guardare il vostro catalogo attuale, un po’ di vergogna non la provate?
