È nel dna della nuova modernità, neanche la morte di appartiene. È l’ultimo degli espropri, non hai più la proprietà privata neanche della vita, neanche della fine. Non passa ai tuoi parenti, nessuna eredità, nella società liquida io ho il diritto di appropriarmi della tua tragedia tanto quanto chi ti ha conosciuto, tanto quanto chi – probabilmente – ti sta piangendo. Liam Payne è morto a trentuno anni, cadendo dal balcone del terzo piano dell’hotel Casa Sur. Pochi minuti prima una chiamata al 911, era il direttore dell’albergo. Payne stava distruggendo la camera e temeva che avrebbe potuto farsi del male. E poi quel particolare, che dice molto di come funzioni la logica di un uomo quando è l’istinto a dirti che sta per accadere una tragedia: Payne ha un balcone nella stanza. Quando arrivano i soccorsi Payne è già morto, ha superato la balaustra nera del balcone. Faceva parte dei One Direction, un prodotto del primo X Factor inglese. Questo basta per credere che la loro vita privata meriti di diventare cosa pubblica, bene di tutti (cioè di nessuno) e, per questo, bene verso cui non nutrire nessun senso di responsabilità, di cui puoi abusare, senza rischiare perdite. È un gioco facile a cui molti sui social hanno scelto di partecipare. In Italia un influencer che legge poesie, Davide Avolio, prima con un video – cancellato – e poi con un secondo video più informale, ha fatto la cosa meno poetica di tutte: sfruttare un tema non suo, lontano da sé e, in teoria, lontano da ciò che vorrebbe promuovere. Perché se la morte c’entra con la poesia, la morte di uno sconosciuto di cui non sai nulla, di cui non conosci le canzoni, la vita, NIENTE, è l’antiletteratura, è l’anti-umanità. È, appunto, disumanità fatta algoritmo. Soprattutto se in un primo momento tenti di sfruttare il tema per pubblicizzare un tuo libro di poesie, leggendo vestito a funerale un tuo testo. Soprattutto se, capito l’errore, cancelli il video e tieni su TikTok un sottoprodotto dell’altro, stavolta in t-shirt e con un caffè davanti, senza leggere poesie, solo discutendo con afflizione di una tragedia che non ti riguarda e che per fare tua devi smantellare, distruggere, infangare, fino al punto di sprecare secondi, forse un minuto su due, a discutere di quanto i One Direction piacessero alle ragazze che corteggiavi da ragazzo.
È certamente il frutto dell’era della sociologia generazionale, che divide i gruppi tra loro ma mai gli individui, stipati nelle macellerie della ricerca scientifica o di certo giornalismo: gen Z, gen X, millenials. Siamo parte di qualcosa anche quando non sappiamo di che si parli. Siamo condannati a condividere tutto di una generazione per il solo fatto di essere nati nel 1998 o ’99? Sì. Avolio dice proprio questo. Chiunque nato negli anni Novanta non può non dirsi toccato da quel che è successo, perché in fondo siamo nati vivendo quel fenomeno. Lo ascoltavano in classe, al parco, quando facevi sport. Era ovunque, dunque ti appartiene. Qui capiamo un secondo punto: non solo sociologia generazionale, ma globalizzazione dei gusti, la più assurda distopia che si potesse prevedere (ed è stata prevista, quante volte la letteratura ci ha messo in guardia dall’omologazione). Non un prodotto del capitalismo, come molti credono, ma del suo contrario (e per questo gli intellettuali seri, un tempo, incolpavano il capitalismo di aver addirittura moltiplicato i bisogni, creandone di falsi). E il contrario del capitalismo non ha a che fare solo con i soldi, con l’economia, con il mercato. Ma anche con la morale. Non accettiamo contraddizioni, cioè competizione, e ci concentriamo solo sul presunto bene, senza riconoscere che la realtà è complessa, che spesso non ci riguarda. Così, terzo punto, nella società in cui si deve necessariamente performare, si deve anche essere necessariamente dalla parte dei buoni. Cosa vuol dire in questo caso? Compiangere Liam Payne, possibilmente rovesciando la tragedia finendo così a parlare di noi, vedi mai che la verticalità di un profilo possa non giovarne.
Epoca della falsa empatia, del disprezzo per tutto ciò che non può esserti riconosciuto. Siamo buoni solo se qualcuno può dirci: “Bravo”. Altrimenti no. I sentimenti privati spariscono, non hanno più valore. Così, pur dispiacendosi della morte di un ragazzo, che ora lascia un figlio piccolo e una moglie, chiunque non si esponga rischia di rimanere indietro, di contravvenire al catechismo del sé. Ecco. Ultimo punto. Se non parli sei un traditore. Sei fuori dal giro per tua scelta, hai voltato le spalle alla tribù. Se si pensa per generazioni, o per gruppi, si finisce per credere a tutto ciò che far parte di una tribù comporta. Se ne esci ti seccano, di ammazzano. Uscirne diventa imperdonabile. Payne ha scelto un modo assurdo per uscire da una delle tante tribù, quella del successo e, forse, di un possibile fallimento. Ne esistono altre: una su tutte, la tossicodipendenza. E forse dovremmo parlare anche di questo. Siamo tossicodipendenti da social. E tutti facciamo le nostre cazzate, come Avolio, come tanti altri all’estero ogni giorno. Non viviamo per l’algoritmo, ma se non ci sediamo dove vuole lui, l’algoritmo spinge via la sedia da sotto di noi e ci fa cadere a terra. Siamo schiavi senza padrone, quindi, tendenzialmente, schiavi di noi stessi. Come tutti i tossicopidendenti. Schiavi di una cosa, sì, ma ancora di più dal rapporto che noi abbiamo con quella cosa. L’autopromozione, il nuovo sogno americano di molti giovani influencer, diventa una delle tante droghe che non apprezziamo in quanto tali (quanti influencer criticano la cosiddetta “dittatura dei social”?), ma per il modo in cui ci fanno sentire.