Enrico Berlinguer ha assunto le sembianze di un Padre Pio della sinistra dov'è assente ormai un proprio simbolico emozionale; il suo “spettro” mite. Ricordare un po' di storia nel nostro caso è necessario, perfino rischiando di apparire pedanti, “notarili” come lo era il predecessore Palmiro Togliatti. Pietro Secchia, leggendario dirigente comunista dalla storia resistenziale, era in verità poco entusiasta nel giudicarlo da segretario: “Di fronte a lui persino Giorgio Amendola è uno di sinistra”. Acqua ideologica trascorsa, impossibile da restituire nella sua verità davanti al pensiero politico semplificato, costretto in poche righe su X. Non si tratta adesso per paradosso di immaginare quanto fosse possibile “fare la rivoluzione” e neppure, citando proprio Berlinguer, se c’era invece modo di “introdurre elementi di socialismo nella società italiana”, semmai a quale cifra consolatoria e sentimentale risponda il suo culto postumo perfino spettacolare, dedicato periodicamente, quasi a colmare – si è detto - i vuoti del simbolico al compianto segretario comunista. Di sfondo, in dissolvenza incrociata, i funerali – Roma, piazza San Giovanni, giugno 1984 – che agli occhi di molti politologi, restituiscono la fine del Pci stesso. Di un’epica, molto prima dello scioglimento formale, meglio, della dissoluzione che avrà luogo a Rimini nel 1991. Irrilevante ricordare, davanti alla santificazione elegiaca successiva, che molti ragazzi, lettori del settimanale satirico “Il Male” sul finire dei Settanta e i primi Ottanta, irridessero Berlinguer: “rosso fuori ma bianco dentro come un ravanello”. Occorreranno almeno dieci anni affinché il Pci già declinante riconquisti attenzione e consensi elettorali da parte sempre dei ragazzi che si riconoscevano comunque nelle ragioni della sinistra. Non è però questo il nodo cui prestare adesso attenzione, tantomeno ogni possibile riflessione storiografica sul suo spessore reale. Meglio allora interrogarsi più banalmente sulla sostanza di un film che, a quarant’anni dalla morte, reifica proprio Berlinguer come luogo affettivo. Berlinguer - La grande ambizione, diretto da Andrea Segre, vuole restituirne la vita politica, interpretato da Elio Germano in un arco temporale dal 1973 al 1978. Quasi una metafora che il trailer lo mostri di spalle durante un comizio (forse Campovolo, Reggio Emilia, Festa nazionale de l’Unità 1983, cui Luigi Ghirri ha dedicato alcuni scatti straordinari) e le bandiere rosse sollevate dalla folla delle prime file siano state aggiunte in postproduzione, plusvalore simbolico restituito al computer.
Così anche la diligente volontà attoriale di Elio Germano di approssimarsi all’inflessione sassarese e alla prossemica quieta del personaggio che gli è stato dato in cura spettacolare. Come restituire, ammesso che sia l'intento del film, un tempo storico corale, quando i manifesti del Pci, oltre ad auspicare “L’Italia fuori dalla Nato”, mostravano perfino i socialdemocratici in caricatura come agenti della Cia? Assodato che “la virtù è premio a sé stessa”, di doni morali Berlinguer era in ampio e riconosciuto possesso, al contrario il suo cammino indichi un carnet di sconfitte. Fallimentare la strategia stessa del “compromesso storico”, problematica per la tenuta del suo partito “l’unità nazionale”, forse anche l'assillo, cancellato dopo l’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, di un incontro con le “masse cattoliche”, e ancora, nel 1977, dopo la cacciata del capo della Cgil, Luciano Lama, dall’università di Roma, i fatti di Bologna: i blindati sotto le Due Torri, con Berlinguer che accusa gli studenti di essere “untorelli”. In che modo non intuire poi del tutto inattuale il “discorso dei sacrifici” quando, proprio a sinistra, si affermava la “teorie dei bisogni”, perfino indotti, ma pur sempre bisogni, come spiegava la filosofa Agnes Heller. Eppure intanto Berlinguer, al teatro Eliseo di Roma, in nome del bisogno di “austerità”, affermava che “la classe operaia dovesse farsene carico in quanto critica dell’esistente”. Non si dimentichi infine la sua contrarietà alla televisione a colori? E qui il discorso sul “corpo” politico di Berlinguer potrebbe andare perfino oltre l’elenco dei limiti del Pci nel comprendere la modernità. Il moralismo presente nelle sezioni comuniste ancora nei primi anni Settanta paradossalmente era stato narrato perfino dal “reazionario” Giovannino Guareschi in Don Camillo e i giovani d’oggi.
Domanda: davanti all’affermarsi della moda beat, come mantenere l’attenzione dei ragazzi “compagni” unicamente sull’epica resistenziale antifascista? Ricordiamo, anni dopo, Pietro Ingrao così commentare un concerto di Sting ospite a una festa de l’Unità: “Sì, bravo, ma non ne comprendo il messaggio”. Forse non è un a caso, sempre di quei giorni, le fanciulle coetanee dei ragazzi della Fgci, la federazione giovanile del Pci, preferissero accompagnarsi con i più spigliati extraparlamentari di Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia… Come spiegava nel 1978 Mauro Rostagno: “C’è una specie di ossessione all’interno della sinistra italiana su tutto quello che non rientra nei programmi stabiliti trent’anni fa. Per cui i giovani devono andare alla casa del popolo, andare a fare i bagni, studiare, fare dimostrazioni quando Lama e Berlinguer o gli altri stabiliscono che quelle sono le scadenze fondamentali della vita nazionale. Tutto quello che non è compreso nel perbenismo, nel buon senso è un nemico potenziale. Il ‘diverso da noi’ è infernale”. Anche l’eurocomunismo immaginato con il francese Marchais e lo spagnolo Carrillo, mummie staliniste ancora allora intatte, era un improbabile progetto politico. Aggiungi le timidezze nel denunciare il sistema sovietico illiberale: nonostante il Muro di Berlino fosse già colmo di crepe, così come l’intero insieme dei paesi del socialismo reale. Tornando all’Urss, dire che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita” era davvero troppo poco, considerando che appena cinque anni dopo la sua morte il Patto di Varsavia verrà giù come statua di sale. Quanto alla pagina più “operaia” di Berlinguer, la sua presenza ai cancelli di Mirafiori nei primi anni Ottanta, cui seguirà la sconfitta del sindacato e del partito stesso con la “marcia dei quarantamila” quadri Fiat.
L’uomo Berlinguer, fra l’altro, muore nel momento di minore consenso interno: nel Pci si discuteva già, sia pure informalmente, su una possibile successione… I funerali cui, dal fondo di via di Santa Croce in Gerusalemme, ho partecipato, visto con i miei occhi, coincidono con le esequie di un’intera stagione ideologica. Anni fa, un primo documentario di Walter Veltroni su di lui, mi ha addirittura fatto pensare sarebbe stato preferibile dedicarlo a Luigi Longo, il segretario che lo ha preceduto, con le immagini di questi in uniforme di commissario politico delle Brigate internazionali sul fronte di Madrid nella guerra di Spagna del 1936, proprio su Longo che volle il dialogo con gli studenti della rivolta del Sessantotto. Il “Bukowski sovietico”, Venedikt Erofeev, struggente scrittore perseguitato in patria dal Kgb di Breznev, lo cita nel romanzo “Mosca sulla vodka”, sognando di visitare l’Italia immagina che proprio Longo gli metta a disposizione un lettuccio a casa sua a Roma. È il 1982 quando, in salotto, una baronessa cara a Guttuso così domanda all’amico: “Renato, ci dici com’è Berlinguer?” Il pittore si fa pensoso, prende tempo, organico membro del Comitato centrale del partito non può concedere sincerità assoluta, non volendo tuttavia passare per ipocrita, e poi, si è detto, la questione della successione è ormai sulle scrivanie delle Botteghe Oscure, tira il fiato e di seguito lascia andare la sentenza: “Francesca, è uno che lavora tanto”. Il film di Segre già nel trailer pretende che si paghi un pedaggio della nostalgia, Berlinguer come plaid ideale per ripararsi dai molti disincanti successivi. “Siamo il partito delle mani pulite,” diceva Berlinguer, ponendo la “questione morale”, ed era semplice onesto liberalismo; impossibile però ancora adesso da spiegare a chi non ha contezza esatta di cos’erano i comunisti italiani. Visti lassù, sul palco dei comizi rivestito di velluto vermiglio, mostravano il simbolo con le bandiere rossa e tricolore nazionale sormontata da falce martello e stella della Repubblica. Li ritrovavi, li riconoscevi in questo modo scenografico durante le campagne elettorali in fondo a ogni piazza, nella moltitudine in ascolto, un popolo. Si sappia che perfino Wanna Marchi, se ricordo bene, in un’intervista disse di essere comunista.