In vista delle elezioni europee abbiamo fatto questo esperimento con Giorgio Almirante, e adesso lo riproponiamo con il suo nemico politico, Enrico Berlinguer, segretario del Pci negli anni Settanta. Abbiamo cercato risposte a domande attuali nei suoi discorsi, datati quasi sessant'anni ma ancora spendibili oggi. La politica, il femminismo, i partiti, il populismo, la guerra, la sinistra. C'è tutto il mondo contemporaneo, e molte parole sembrano essere state pronunciate ora. Anzi, sarebbe bello se qualche politico di sinistra le pronunciasse, in questo momento storico. Ma non solo, perchè se Elly Schlein ha scelto proprio il palco di Padova, teatro dell'ultimo comizio di Berlinguer per concludere la campagna elettorale delle europee, e ha deciso di mettere il volto del segretario sulle tessere del PD, sarebbe bello se il suo partito mettesse in pratica i consigli che Berlinguer ha dispensato negli anni. Perchè leggendo questa intervista immaginata, e ritrovandosi davanti delle parole così urgenti, anche se pronunciate in un'altra era politica, si capisce che non sono i problemi politici a essere davvero cambiati, ma le risposte.
La questione femminile, la parità di genere, il femminismo. Come vede tutto ciò?
Un tempo si pensava che prima si dovesse fare la rivoluzione sociale, per risolvere la questione femminile. Già nel 1979 dissi che non doveva più essere così: il processo della rivoluzione sociale e quello della liberazione della donna da ogni forma di oppressione, compresa quella che si è storicamente determinata nel campo della sessualità, devono procedere di pari passo e sostenersi l’uno con l’altro.
Come?
Le donne, come i lavoratori, sanno per esperienza che una volta ottenute delle buone leggi, bisogna lottare per farle applicare correttamente e completamente. Ma per migliorare in generale le condizioni delle donne occorre una lotta di massa, che non deve essere solo delle donne e dei movimenti femminili, per un nuovo sviluppo economico e sociale, per un nuovo corso della intera vita nazionale.
Anche perché le donne ormai lavorano tutte.
Uno dei problemi più acuti, nel 1979 come oggi, era quello di garantire un lavoro stabile e sindacalmente tutelato a tutte le ragazze e le donne che ne hanno necessità e che lo desiderano: e, dall’altro lato, lo sviluppo di servizi sociali che alleggeriscano il lavoro domestico che spesso, per la donna, si aggiunge a quello extra-domestico.
Quali servizi?
Non solo asili nido, scuole materne, scuole a tempo pieno, consultori, ma anche tutte quelle strutture e attrezzature civili che trasformano in gestione sociale almeno una parte di attività e di lavori che oggi si svolgono nell’ambito delle singole famiglie e che ricadono pressoché esclusivamente sulla donna. Occorre dunque battersi accanitamente contro le discriminazioni che, di fatto, colpiscono l’occupazione femminile e questo deve essere compito non soltanto delle donne, ma dei sindacati, dei partiti, degli organi di potere centrale e locale. Una rivoluzione che deve portare all’affermazione di un’unica dignità dell’essere umano, sia che la sua condizione corporale sia maschile, sia che sia femminile.
Sulla violenza contro le donne?
Leggiamo con amarezza e indignazione le cronache che ci parlano quasi ogni giorno di episodi di offese violente e cruente alle donne, e cresce il numero delle aggressioni compiute non solo da singoli, ma da gruppi.
Che cosa si può fare per combattere concretamente contro la violenza sessuale?
Il Pci, già nel dicembre 1977 presentò una sua proposta di legge dal titolo significativo di “Nuove norme a tutela della libertà sessuale“. Una proposta riguarda la definizione di un nuovo reato, autonomo e a sé stante: quello della violenza sessuale compiuta da due o più persone. C'era anche la proposta di equiparazione del ratto a fini di libidine al sequestro di persona, e vi sono altre importanti iniziative di modifiche delle procedure. Ma queste e altre innovazioni legislative a poco serviranno se non saranno accompagnate e sostenute da un intervento delle masse femminili, da una battaglia nell’opinione pubblica, che valgano a modificare atteggiamenti mentali che sono radicati in ogni settore della società e dello Stato, compresi magistrati e avvocati. E questo, vale per tutte le questioni che riguardano i rapporti tra le persone, la vita familiare e della coppia e anche il campo della sessualità. Si è molto discusso e si discute ancora sulle ragioni che ci hanno spinto a introdurre nelle Tesi un passo specifico relativo alla liberazione della donna anche nel campo della “sessualità”.
Dal punto di vista economico, un suo cavallo di battaglia era quello dell'austerità. Un concetto che negli ultimi anni è stato visto come un sopruso.
Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi, come negli anni Settanta, sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
Cosa intende di preciso per austerità?
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Comporta certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.
Che fine ha fatto la sinistra oggi?
Se dobbiamo parlare di sinistra, partiamo dalla Resistenza. Il fatto decisivo è stato l’ingresso, per la prima volta nella nostra storia nazionale, di grandi masse popolari, unite, quali artefici di una svolta rinnovatrice nella vita del paese. La principale protagonista della Resistenza è stata la classe operaia che, nel corso della lotta di liberazione, ha saputo mobilitare e organizzare vaste masse contadine del nord e del centro, ampi strati di intellettuali, studenti e altri gruppi intermedi attorno agli obiettivi e alle battaglie condotte dalle formazioni partigiane e dai Comitati di liberazione nazionale. Nelle città e nelle campagne il consenso popolare fu vastissimo. Si creò, in sostanza, una nuova unità morale e civile degliitaliani.
Unità che si è persa, oggi i voti degli operai hanno preso altre strade. Perché?
Probabilmente perché non gli sa più parlare. Durante la Resistenza, come dicevo, vi fu una rottura con il passato ma anche una ricomposizione unitaria di forze diverse, protese a lavorare per la costituzione di un’Italia diversa dal passato. È un fatto, questo, sul quale non si è forse abbastanza riflettuto e dal quale non tutti, anche tra i militanti della sinistra, hanno saputo e sanno trarre tutte le implicazioni: la classe operaia e noi comunisti siamo stati tra gli elementi costitutivi della fondazione della democrazia italiana. Lo Stato italiano ha la sua impronta di origine nell’ingresso nella scena politica delle masse popolari e dei loro partiti e nel contributo non solo di lotte ma anche di idee e di cultura di un grande partito comunista di massa.
Sono le idee e la cultura che mancano?
L’affermazione di principi e valori nuovi è oggi essenziale e urgente non solo nella vita sociale ma anche in quella politica. Tutti abbiamo sotto gli occhi i danni causati nella vita e nell’attività dei partiti dalla pressione crescente dei gruppi, delle caste, delle clientele, delle posizioni costituite. Questo imperversare di interessi particolaristici e corporativi ha portato troppi esponenti dei partiti a perdere la capacità di porsi al servizio del paese e dei suoi reali interessi. Il paese ha dunque bisogno che anche nei partiti, e nella loro condotta, nel modo in cui essi stabiliscono i rapporti con il paese e la società, si compia una svolta, proprio perché la nostra democrazia è fondata e non può continuare a vivere che sul sistema dei partiti.
Detto oggi, nell'epoca del populismo, suona strano. La politica deve tornare ai partiti, ma gli elettori non si fidano più.
Già nel 1981 i partiti non facevano più politica. Politica si faceva nel ‘ 45, nel ‘ 48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee, certo, scontri di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! C'era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, ne era ricambiato.
Cosa sono diventati i partiti?
I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente. Idee, ideali e programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”.
E dei partiti si passa al clientelismo.
I partiti, da decenni ormai, hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Come ci si può opporre a questo sistema?
Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Allora l'antipolitica è giustificata? Può bastare un vaffa, come dicevano i 5 Stelle?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. Non basta dire di essere contro, per combattere il sistema.
Sul conflitto in Ucraina?
Dissi esattamente nel 1981 di dare inizio immediato al negoziato per diminuire i missili in Europa, anzi, per toglierli completamente, e per chiedere alll’Urss di cessare l’installazione dei suoi SS-20 fin dal momento in cui il negoziato ha inizio. E ho aggiunto che bisognava far presto, perché se continuava la gara a chi costruiva più missili, a chi li fabbricava più sofisticati e a chi ne metteva di più, il pericolo di una guerra di sterminio in Europa sarebbe diventato incontrollabile. L'adesione dell’Italia al programma approvato dalla Nato nel dicembre 1979 (quando si decise sugli euromissili) era subordinata appunto alla ripresa immediata del negoziato.
Ma quello dei missili è un business pubblico.
La spesa pubblica era, e lo è ancora, un cancro che divora le risorse del paese in mille modi, con mille sprechi, a favore di mille clientele.