Il barone Ottavio Cappellani, avendo a cuore il futuro del Maxxi, prestigioso museo d’arte contemporanea dalla forma architettonica suprematista, già nelle pertinenze amichettistiche di Giovanna Melandri, succedanea di Walter Veltroni, e in seguito, almeno fino alla sua nomina a ministro della cultura, di Alessandro Giuli, il Cappellani, dicevamo, consegna su queste stesse pagine nomi e volti che, a suo dire, dovrebbero essere ritenuti onorevolmente idonei per la nuova presidenza di quell’istituzione. Tra questi anche Fulvio Abbate, la mia persona. In verità, pur ringraziando Ottavio, mi reputo del tutto immeritevole di una simile possibilità, di un tale dono, di una simile investitura. Sia per mia conclamata, totale, inettitudine davanti a un qualsiasi faldone burocratico sia per indole e dato caratteriale. Da scrittore, ho scelto infatti d’essere innanzitutto, di più, su tutto, un artista. Il museo è semmai la mia stessa persona che dovrebbe esporre. Non certo in forma celebrativa, più banalmente per restituire, diciamolo tecnicamente, il racconto della mia storia certificata dagli oggetti altrettanto idonei a creare un racconto autobiografico.
Nessun orgoglio narcisistico, in questo caso. Lasciamo ad altri l’orgoglio degli alamari, l’orgoglio dell’abito di bianco che porti ad assomigliare a Joseph Goebbels in visita accurata ufficiale al padiglione germanico della Biennale veneziana nei giorni del Reich millenario, in attesa del RO-BER-TO, l’asse Roma, Berlino, Tokio. C’è infatti chi sceglie il dominio e chi il sabotaggio. L’artista, come più volte ho provato a dire senza nascondere il timore delle altane della retorica, deve semmai assomigliare a un chiodo a quattro punte, disseminato lungo le strade consolari dell’autorità, del “potere”, del Palazzo, e anche dell’ovvio e dell’ottuso, come noterebbe Roland Barthes. Esattamente come accadeva a Roma - tra Tiburtina, Prenestina e Casilina - durante l’occupazione tedesca, quando Giuseppe Albano, detto “il gobbo del Quarticciolo”, tendeva le imboscate ai militi della Wehrmacht. Ho già detto che odio i faldoni, la burocrazia, e non saprei che farmene di un ruolo apicale sia pure residenzialmente, orgogliosamente, riferito a un’istituzione culturale, artistica, diportistica per ceti medi più o meno riflessivi, criceti non meno medi?
Mi torna in mente in questo senso quando l’amico Frisco, ovvero Gianfranco Micciché, duca-conte di Berlusconi in Sicilia, mi propose di entrare nel consiglio d’amministrazione del Teatro stabile di Palermo, luogo degno allora del “Todo modo” di Sciascia portato mirabilmente al cinema da Elio Petri. Ricordo, intatte, le parole che dissi al duca-conte azzurro di Sicilia - l’autore del 61 a 0 elettorale per Forza Italia - in quella circostanza: “Frisco caro, neppure se me la sucassero scale scale, potrei accettare, sono uno stronzo in proprio, mai per conto terzi, ti voglio bene”. A Palermo, città dove sono nato, e da me felicissimamente lasciata più di quarant’anni fa, la massima forma di soddisfazione legata alle prebende del potere si esprime proprio immaginandosi spompinati mentre si salgono per poi scendere le scale. Spero di avere dato una risposta molto chiara in questo senso. Dimenticavo, non è tutto: sarà stato, credo, il 1994 quando il curatore Achille Bonito Oliva mi volle nominare commissario di sezione alla Biennale d’arte di Venezia. Anche allora non mi presentai, non era quello il mio luogo. Buongiorno e grazie, dissi. A dirla tutta, l’unica cosa che potrei realizzare lì al Maxxi sarebbe semmai una mostra autocelebrativa che metta insieme una parte degli oggetti della mia biografia di scrittore, d’artista, di già protagonista dell’avventura, oggi conclusa, patafisica, di Situazionismo e Libertà. Provo qui a descrivere solo alcune delle cose che porterei per restituire me stesso, magari gli stessi che mostro quando metto in scena il mio personale “Teatro degli oggetti”.
Porterei il pesce cantante; il biglietto da visita di Piero Manzoni avuto in dono da Ettore Sordini, compagno di strada del pittore degli “achrome” negli anni milanesi del bar “Jamaica”; il modellino l’Aston Martin DB5 che consente a un certo punto l’espulsione dell’uomo della Spectre seduto accanto a 007; la coccarda che ricorda gli eroici combattenti antinazisti, commando composto da membri dell’esercito cecoslovacco in esilio, che giustiziarono il "boia di Praga" Reinhard Heydrich; il temperamatite a forma di John F. Kennedy che comprai a New York anni fa; la tessera postale di mio nonno Giuseppe; il modellino dello Spirit of St. Louis di Charles Lindbergh che montai nel 1966; la medaglietta dell’amore, quella che dice “+ di ieri - di domani”, verso che si deve a Rosemonde Gérard, moglie dell’autore di Cyrano de Bergerac, Edmond Ronstand; il disegno di Georges Wolinski che mostra una fanciulla sulle gambe di un operaio accompagnato dalla scritta: “Rien n’est trop beau pour la classe ouvriere!”; il fazzoletto rosso dei partigiani di Giustizia e Libertà; la sagoma a grandezza naturale di Moana Pozzi ridipinta da Mario Schifano; e ancora, restando a Schifano, la sequenza di Polaroid che mostrano Yves Klein alle prese con le sue antropometrie. Mai mi sarei potuto permettere un Klein, così, nottetempo, Schifano volle fotografarle per me mentre scorrevano dentro il film “Mondo cane” di Gualtiero Jacopetti… Continuo? La confezione del “Groucho TV quiz”, gioco da tavolo che proprio Groucho Marx, nei primi anni ’50, faceva all’NBC; l’immaginetta votiva di Sarita Colonia, santa, mai riconosciuta dalla chiesa, dei poveri di Lima che ha il potere di rendere invisibili i ladri, non c’è ragazza prostituta del Perù che non ne tenga il volto sul comodino.