Alessandro Giuli è un comunista. Ma prima un po’ di contesto. Uno che a Piazzapulita cita Franco (Bifo) Berardi, Come curare il nazi, sa di cosa parla, anche se non ha una laurea. Gennaro Sangiuliano qualcosa di buono lo ha fatto – per esempio mettendo un freno ai finanziamenti pubblici al cinema dell’amichettismo – e come due torti non fanno una ragione, torti e ragioni non si annullano per uno scandalo con annessa sceneggiata napoletana, quindi gli va riconosciuto. Giorgia Meloni ha gestito dignitosamente la crisi e lo fa a capo di uno dei governi più longevi della storia repubblicana recente. Crepino gli invidiosi, si direbbe. Giuli è passato dall’aquila sul petto al doppiopetto e dalla direzione del Maxxi alla direzione di un ministero. E questo perché è un comunista, il comunista che serve in questo momento a Giorgia Meloni. I comunisti hanno una gran qualità agli occhi dei governanti: non disprezzano il potere se utile a raggiungere un obiettivo. Giuli ha tutta l’aria di essere uno che sa cosa farsene, del potere. La sinistra lamenta l’assenza di curriculum – passando dalla parte dei sostenitori della logica del merito, che fino a ieri hanno criticato – ma non si accorgono che è uno di loro? Qual è il curriculum di Ilaria Salis?
L’ultimo libro di Alessandro Giuli, pubblicato da Rizzoli, si intitola Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia culturale (2024). Manifestino che strombazza il nuovo catechismo della destra e che solo apparentemente può essere visto come un tentativo di appropriazione indebita di un filosofo comunista (come fatto, si dice, con Pasolini). Al contrario, lo stalinismo culturale è uno spettro che va dall’infatuazione per i governi tecnici – che vorrebbero, per esempio, cancellare il liceo classico – al desiderio di scalare le gerarchie politiche della propria tribù. Giuli è in questo estremo e, in tal senso, è il più gramsciano dei nostri governanti, quindi il più comunista. Trascuriamo per un attimo le analogie, oggettive, tra la visione economica socialista e quella fascista, e puntiamo su un’altra caratteristica che Giuli – e quel che rappresenta – condivide con i comunisti. Nel corso di tutto il Novecento la Sinistra ha fatto di tutto per togliersi di dosso la sporca eredità dell’ortodossia marxiana, giustamente definita dai più una vera e propria religione atea. Era tempo di tagliare i ponti con l’omofobia, per esempio, e con il giustizialismo sovietico. Così la sinistra iniziò a mentire parlando di sé e si convinse di essere, in qualche modo, anarchica e libertaria, antistatalista ed eccentrica. Al punto che oggi la Nuova Sinistra può definirsi tranquillamente queer, sfruttando una categoria totalmente sconosciuta ai vecchi marxisti (cosa c’è di strano, per un marxista, nel vedere il “feticismo della merce” scolare dalle cose alla cosa in sé, cioè il sesso).
E questa bugia anarchica è la stessa che Giuli racconta a se stesso nel suo libro. Parlando del nuovo sistema, dove si deve essere “progressivi nella conservazione e conservatori nel progredire” (apprezzate l’insignificanza logica di questa frase, dal momento che se si è conservativi nel progredire allora si sarà conservativi anche nell’essere progressivi nella conservazione), scrive: “Senza alcuna reticenza, senza complessi d’inferiorità da sfamare, sindromi di grandezza mal placées. Ne è nato così qualcosa di rapsodico che non può ancora dirsi libero, ma forse sì libertario e liberatorio al contempo. Come la destra che vorrei”. Ma siamo sicuri che Giuli voglia questa destra libertaria (che in Italia non esiste)? Una destra che finisce prima al Maxxi e poi al ministero della Cultura per un governo conservatore e legato alla destra sociale? Giuli è un comunista gramsciano, uno di quelli che voleva conquistare le casematte del potere e ci è riuscito. L’unica differenza con i comunisti è questa: lui ha saputo vincere, gli altri ancora pensano al mitologico campo largo.