“Come l’arancio amaro” di Milena Palminteri non è affatto un cattivo libro, anzi. È una di quelle opere in cui non sembra esserci una parola di troppo o una frase lasciata al caso, e questo può essere un difetto. Un primo scoglio si incontra nelle prime venti pagine, che coincidono quasi del tutto con ciò che viene anticipato già dalla prefazione. Anzi, viene il sospetto che chi l’ha scritta si sia limitato a leggere appena il primo capitolo, fermandosi lì senza proseguire oltre. Queste prime pagine risultano dense di luoghi comuni, la donna siciliana oppressa dal patriarcato, la Sicilia schiacciata dalla mafia, i meccanismi di potere fondati sulla paura e sull’omertà. Temi importanti, certo, ma trattati con un taglio che sa un po’ di manuale scolastico, quasi didascalico. Si ha l’impressione che l’autrice voglia spiegare al lettore ciò che, in realtà, la trama ben costruita avrebbe potuto mostrare da sola, con maggiore efficacia e senza appesantimenti. È un difetto di forma, più che di contenuto, manca la poesia, manca quella sottile capacità di evocare senza necessariamente dichiarare.

In questo incipit, invece, sembra di assistere a una lezione di educazione civica travestita da narrativa. La scelta del siciliano - o meglio, di un italiano intessuto di dialettismi e cadenze locali - è però un contrappeso prezioso. Rende la lettura gustosa, con un sapore autentico che sa di terra e radici. È proprio questo vernacolo a salvare le prime pagine dalla noia e a invogliare il lettore a proseguire. Anche la descrizione dei rapporti sociali che consentono alla mafia di mantenere il proprio dominio negli anni venti del novecento, pur ricordando certi passaggi alla Verga, finisce per risultare meno incisiva del dovuto, ben scritta, ma non sorprendente. Tuttavia, superata questa soglia iniziale, il romanzo prende il largo e acquista ritmo. È come se la scrittrice, dopo una partenza faticosa, si fosse lasciata finalmente andare, trovando una voce più naturale e fluida. Dal terzo capitolo in poi, la narrazione si apre e il romanzo prende corpo. La scena della corriera, ad esempio, è brillante e restituisce con vivacità l’atmosfera di un piccolo mondo che si muove e parla. Tuttavia, qui tutti quei padri, quelle madri, cognati, comari, vedovi, zitelle, cornuti, un’umanità corale, certo affascinante, confonde il lettore, che si perde dietro i nomi e fatica a ricordare chi sia chi, quale ruolo svolga e in quale legame di parentela si trovi rispetto agli altri. L’impressione è quella di un affresco siciliano che, per la sua densità, finisce per somigliare a una sorta di Signore degli Anelli trasposto a sud, dove i personaggi affollano la scena al punto da sovrastare, talvolta, il filo narrativo principale.

Nonostante ciò, il libro mantiene la sua solidità. Non si vuole qui demolire un’opera ben scritta, ma piuttosto restituire la sensazione che potrebbe averne un italiano medio. Questi, insomma, rischierebbe di abbandonare la lettura prima della metà, temendo di trovarsi di fronte a un romanzo femminista. Non è proprio così. Se è vero che la questione femminile è al centro della vicenda, è altrettanto vero che la trama, ispirata a una storia vera e strutturata con coerenza, va oltre il messaggio politico. Ciò che rimane, pagina dopo pagina, è un affresco dei rapporti di potere, dell’amore inteso non come forza liberatrice ma come sentimento che, quando subordinato a logiche di dominio e gerarchie sociali, si piega e si spegne. Questa capacità di superare la dimensione militante, lasciando emergere un quadro più universale e complesso, rappresenta uno dei maggiori pregi del romanzo. Eppure, l’opera si mimetizza troppo bene tra i romanzi da scaffale da supermercato o da autogrill, con quella di narrativa di consumo di massa che invade le librerie e i punti vendita generalisti. Un peccato, perché “Come l’arancio amaro” non è “spazzatura”, ma un’opera che, pur con i suoi limiti, possiede lezioni di educazione civica, a parte una sua dignità letteraria.
