Aldo Cazzullo lavorava per La Stampa e nel ’99 lo inviarono a Tunisi. Erano anni strani, quelli di Mani Pulite. L’evento giudiziario più dirompente della storia repubblicana italiana, che portò, come raccontano Barbacetto, Gomez e Travaglio nel loro saggio, a una conseguenza di natura politica: “Furono non i giudici nei processi, ma gli elettori nelle urne, a far saltare il sistema dei partiti della Prima Repubblica, ormai screditati, e a costringere la stessa classe dirigente a cambiare, almeno in apparenza, il quadro politico”. Eppure c’era qualcuno che a Hammamet, senza nascondersi, ma proteggendosi, si auto-esiliò. Era Bettino Craxi. A partire dal titolo del libro del vicedirettore del Corriere, Craxi, l’ultimo vero politico (Rizzoli, 2024), possiamo già fare un parallelismo con un altro libro recente, dell’americano Franklin Foer, L’ultimo dei politici: perché con Joe Biden finisce un’epoca (Longanesi, 2024). In effetti, così come sta avvenendo ora, anche la fine di Craxi segnò, drammaticamente, la fine di un’epoca, preannunciando ciò che sarebbe arrivato: e quindi il berlusconismo, la tragicommedia, tutto ciò che per il filosofo Slavoj Zizek veniva rappresentato magistralmente dal film di Terry Gilliam Brazil (1985): l’epoca dei pagliacci al potere. Che non vuol dire solo, come sosteneva Giovanni Sartori, incompetenti al potere; ma, più profondamente, personalità in grado di depotenziare il significato stesso di politica in nome, troppo spesso, di interessi personali. È ciò che potrebbe essere accaduto in Usa con la seconda elezione di Donald Trump.
Bene, quel racconto di una fine non può che passare dal racconto di un’altra fine, gli ultimi giorni dell’uomo Bettino Craxi, la figura che più di tutte ha incarnato “l’impero alla fine della decadenza” (Verlaine) che fu la Prima Repubblica. Aldo Cazzullo recupera il materiale a cui lavorò venticinque anni fa e, in occasione di un anniversario importante come quello della morte del leader del Psi (il 19 gennaio 1999), contrappunta un lavoro di reportage rigoroso, che fa scuola, con un’elaborazione matura, culturale, non solo di quegli anni, ma del contraccolpo sociale che arriva fino ai giorni nostri. Aneddoti, fotografia, un esercizio di distacco che il giornalista deve provare a portare a termine, pur consapevole che nel percorso la penna, è la maledizione della letteratura, tenderà a mescolare, come accade alla memoria, verità dei fatti, interpretazioni, ricordi. Non è tanto la storia di Bettino Craxi, dunque, che leggiamo, ma l’esperienza della sua storia dal punto di vista di un italiano che ha saputo cogliere non il dramma della sua caduta politica, ma la leggerezza, il fumo dopo l’esplosione dei fuochi d’artificio in cielo, di una parabola istituzionale complessa.
E dopo questo fumo cosa resta? Una crisi dalla quale, pare, non ci siamo più ripresi. Per questo Cazzullo ci chiede di riflettere su un dato: lo scorso secolo l’affluenza era del novanta per cento, oggi abbiamo percentuali americane (Paese in cui, tipicamente, una grandissima parte della popolazione si astiene dal votare). Cosa è cambiato? A cosa far risalire quello che per Cazzullo è, evidentemente, un danno per la democrazia? La risposta è nell’ultima pagina del viaggio, ma vale la pena di riportarla (così che possa diventare, per chi leggerà questa recensione, magari la premessa del libro): “Gli italiani non credono nella politica perché non credono nello Stato. […] Gli italiani non riescono a concepire che una persona possa fare qualcosa nell'interesse di qualcuno che non sia se stesso o un suo familiare. A Catania chiedono: ‘Pe' mia chi c'è?’. A Verona dicono: ‘A me che mi vien?’. Il concetto è lo stesso: e io cosa ci guadagno? Un politico che dicesse ‘non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo Paese’ verrebbe inseguito con i forconi”. E, ancora di più: “Soprattutto, gli italiani non hanno un rapporto maturo con il potere. Il leader non viene sostenuto o criticato; viene blandito o abbattuto. […] Anche per questo non siamo un Paese da operetta, ma da tragedia. Ci pensiamo tolleranti, e spesso lo siamo anche troppo; ma a volte diventiamo feroci”. Così, come il fotografo fagocitato dalla tomba di Craxi durante il funerale, di cui racconta Cazzullo, ciò che rimpiomba nella fossa della storia è il nostro stesso destino.