Oh. My. Gosh. Ecco un’altra biografia romanzata di una qualche presunta diva convinta che l’arte si passi per osmosi attraverso la minchia. Ma ogni Tommaso Zorzi ha bisogno di una diva di riferimento e lui ha scelto Luisa Casati Stampa, una sorta di Madame Bovary “frociarola” (il termine è di Zorzi), almeno nella visione di Zorzi mentre, a dire la verità, sembra una groupie dell’epoca che si osmotizzava l’arte attraverso la minchia di Gabriele D’Annunzio e che al giorno d’oggi, o forse meglio negli anni Settanta, sarebbe stata una groupie dai piedi sporchi per osmotizzarsi un qualche musicista. Zorzi è convinto che la Casati volesse fare di sé un’opera d’arte, che poi potrebbe anche essere vero, se dell’arte della marchesa del castello restasse qualcosa se non il dato biografico che si ingroupava il Vate e si faceva fare i ritratti dai pittori (e un ‘sticazzi non ce lo vogliamo mettere?). Le descrizione dell’autore, rilasciata in calce dalla casa editrice Mondadori per questa roba intitolata Divina! con l’escalamativo in un’epoca in cui esiste ancora gente che dice “Adoro!” pensando sia chic, è una roba da fustigazione dell’editor di riferimento ma siamo convinti che l’autore si sia scritto la nota su di sé da solo perché recita: “Tommao Zorzi è un caleidoscopio di parole affilate e riferimenti che appartengono al pasato, capace di trasformare l’ironia i riflessione e la leggerezza in profondità. Milanese dallo charme impertinente, si divide tra televisione, social, scrittura e mondanità con il passo sicuro di chi sa osare e l’incertezza di chi è sensibile”, e io non so se fustigarmi alle palle, fustigare l’editor Mondadori che ha scritto “visto si stampi”, fustigare Zorzi o fare le tre cose insieme con l’eleganza, la sensibilità e la profondità di un buttero che fa schioccare la frusta.

E insomma veniamo alla biografia romanzata di questa Paris Hilton tendenza Britney Spears dell’epoca che passeggiava in piazza San Marco nuda, coperta solo da una pelliccia (e mi viene in mente il gioco di parole: “San Francesco dormiva con una vecchia coperta di peli”) mentre un servitore la illuminava con una lampada, immaginiamo in stile Frau Blucher, perché tutti potessero commentare a bassa voce: “Ma un ‘sticazzi no?”. E a seguire Zorzi si immagina la vita Marchesa dell’uccello che voleva solo un castello con dettagli che sarebbero potuti venire in mente a chiunque soltanto leggendo la voce Wikipedia dedicata a ‘sta qui. Il tutto intervallato dalla mondanità (Zorzi è mondano) contemporanea delle notti meneghine in un abbozzo di autofiction (o autofRiction) che sembra la versione frociarola (termine usato dall’autore) della Gintoneria di Lacerenza. Lo stile, in luogo di sembrare “caleidoscopico” sembra fogato (participio passato di “fogare”, fare con foga). Vuole somigliare sia ad Alberto Arbasino (ed è il secondo che ci prova con risultati scadenti, l’altro non lo nomino) sia Aldo Busi, senza possedere i riferimenti culturali del primo e la rabbia del secondo ma ritenendo che con la velocità una possa anche non accorgersene (sì, c’è anche da citare Conoscerete la nostra velocità, di Dave Egger, ma lui gioca in un altro campionato). Adesso, io non so se la marchesa sul pisello che vuole l’uccello nel castello fosse stata davvero una nullità come la descrive il Zorzi. Ma alla fine della lettura resta imponente un retrogusto di “ma sai che me ne fotte?”
