Alcide Pierantozzi ha pubblicato per Einaudi un libro che si intitola Lo sbilico in cui, come dice lui “in presa diretta” ci parla della sua malattia mentale, “come un diario di bordo della malattia” e io mi trovo a disagio a scriverne perché so che il disagio psichico porta a una qual certa sensibilità e ho paura che Pierantozzi mi si rompa. Non nel senso che “si rompa le scatole” ma proprio nel senso letterale, tipo, che ne so, quando ti cade una tazzina per terra. Si possono rompere gli scrittori? Che ne so, gli può cadere un orecchio o i capelli se sono troppo duro? Ha ancora i capelli? D’altronde di un bambino morto, autopsizzato, se ne parla nel libro di Pierantozzi e l’autore vuole in qualche modo ricucirlo e credo che a un certo punto parli anche di aghi e fili di sutura ma immagino che per incollare i pezzi di un bambino morto la soluzione migliore sia il superattack, ma non so se le supercolle vadano bene anche per incollare parti di cervello anche perché Pierantozzi sembra stordito ma tutto sommato ancora vivo. Il fatto è che io sono uno strutturalista e credo in quello che diceva Giorgio Manganelli a proposito di Memorie di un malato di nervi” di Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, libro che ispirò il romanzo (tossicissimo) di Roberto Calasso L’impuro folle, e cioè: “Queste memorie sono un test sui rapporti che si intrattengono con la malattia, e sul modo di considerare rettamente la demenza come una delle grandi prove iniziatiche della vita, come la pubertà o la morte. Dunque, è un libro esemplare e, ironicamente pedagocico”. Ma Schreber scrisse il libro, direbbero a Roma, quanno che se fu ripijato, a posteriori, tanto che Freud (che sul suo “caso” ci fondò la teoria della paranoia litigando con Jung) voleva proporlo come psicanalista ad honorem per la lucidità scientifica con la quale aveva trattato la sua malattia.

Qui invece siamo in presa diretta. Siamo in presa diretta intorno a una mente destrutturata, così devo dire che non penso la letteratura sia questo, né, come dicono quelli dalle idee confuse (se pure non a livello psichiatrico) che un romanzo debba “suscitare più domande che risposte”, ma quando mai! Ciò che distingue un romanzo buono da uno pessimo sono le risposte che dà (ci sono romanzi che hanno risposte insensate) non dalla quantità di domande che pongono. Ma comunque. La destrutturazione mentale di una malattia deve condurre a una struttura, quella struttura è il romanzo, il resto è malattia. Con questo non voglio dire che nei romanzi non si debba parlare di disagio psichico, ma se vogliamo fare letteratura e non diario social, se ne deve parlare prendendone le distanze, ma le distanze si prendono con l’ironia e la letteratura (?) italiana non la prende in considerazione. Il risultato è il “patetico”, in senso alto, per carità, ma di patetico si tratta. E della successiva paura di smembrare uno scrittore che al momento sembra incollato con la saliva e non con la supecolla. Pierantozzi cita nei ringraziamenti finali David Foster Wallace, che di disagio ne aveva ma lo ha raccontato (spesso in terza persona – distanza) e con una carica ironica che in Italia se la sognano. Certo, poi si è impiccato sul patio di casa sua, ma prima, per così dire, non ci ha smarronato. Cercava una “struttura”, non l’ha trovata. Amen.
Ricordo una telefonata che feci a Manlio Sgalambro quando, nei miei vent’anni ero pazzo come un cavallo (“pazzo, ci sono anche cavalli non pazzi”), gli dissi al telefono, con voce seria (quando si è giovani si tende a essere seri, ma è una malattia mentale come un’altra): “Credo di volermi uccidere”. Manlio Sgalambro mi rispose: “Mi sembra un’ottima idea”. Sono ancora qui e credo nella struttura. Per il resto, nel libro, si parla delle solite cose, medici, mamme, fratelli morti, robetta. C’è solo una pagina che mi ha stuzzicato: quando parla dell’Inizio, dei sommovimenti che ci sono all’inizio delle cose. Ecco, quella è una bella esplorazione. Ma Pierantozzi parla ancora delle “frasi”, dell’inizio della “scrittura”. È insomma ancora nella “parola” (quanta malattia mentale nella “parola”, quest’altra “cosa” sopravvalutata). In principio non era il “Verbo”, ma vettori in potenza. Io fossi in lui mi sbarazzerei innanzitutto della parola. Se vuole scrivere un romanzo. Se no resta un memoir, i libri che prima dell’avvento della diaristica e dell’autofiction, scrivevano solo i matti di provincia. (Secondo me l’autore si rompeva di più se dicevo che era un bel libro. Si dà ragione solo ai matti, no?).
