Già che Buckeye, la città in cui è ambientata la storia, venga descritta a pagina 1 come “il Secondo Errore sul lago, lasciando il primo posto a Cleveland” dà la misura di quale sia l’equazione da applicare pedissequamente ai romanzi di Stephen King: qualsiasi cosa egli produca è o oro o molto simile all’oro. Per lo stile, per la storia, per il forte liberalismo, che rende lo scrittore un inestimabile produttore di capitale culturale sia per i temi di riflessione che per la dose di intrattenimento. Oggi le due cose vanno quasi sempre separate e si tende a privilegiare la prima sulla seconda, nonostante sia la seconda a fare la letteratura (a dispetto, talvolta, della prima). E dunque, parlando di Never Flinch: La lotteria degli innocenti (Sperling&Kupfer, 2025), che ha al centro la storia di una vendetta per una morte in carcere che avrebbero dovuto impedire, si potrebbe iniziare da questo dato di fatto. Stephen King è probabilmente il migliore a tenere insieme grandi temi e grande intrattenimento, almeno stando anche alle statistiche di vendita.

Le due cose non vanno, ancora una volta, separate. E nessuno deve pensare di dover prediligere la virtù al guadagno, poiché quasi sempre puoi sfruttare la prima con molta più facilità se hai qualche soldo in tasca. Never Flinch è anche un’altra storia della detective Holly, protagonista anche dell’ultimo romanzo di King (e di altri ancora), definita dal Guardian una delle investigatrici “più affascinanti della narrativa poliziesca contemporanea”. È così. Ogni libro che passa la scopri, è un personaggio sfaccettato, come si direbbe oggi, che mantiene una sua carica intimamente positiva, che la rende di fatto la buona della storia, senza starci troppo a girare intorno, ma che resta complesso, da scoprire. Umile e brillante, gentiale e perfettamente normale. Dovrà indagare sulla promessa che un assassino ha fatto alla polizia di Buckeye: uccidere “13 innocenti e 1 colpevole”, ovviamente legati alla morte dell’uomo ucciso in carcere.

Temi, si diceva. Poiché la prima linea narrativa si intreccia alla seconda, che è poi il secondo lavoro di Holly, guardia del corpo di un’attivista per i diritti delle donne tartassata dai fondamentalisti religiosi. Difficile rifiutare l’analogia palese con i tempi di oggi, con la società allevata da Donald Trump. C’è poi il tema della dipendenza da sostanze, esacerbata dalla diffusione del Fentanyl, che colpisce soprattutto le fasce più povere della popolazione. La marginalizzazione, tuttavia, è anche quella più o meno borghese (si dovrebbe parlare ormai di middle-class) degli alcolizzati. Anche King è stato alcolizzato e potrebbe esserne uscito grazie a quei gruppi, grazie al sostegno, e anche a una fede vissuta da pragmatista (à la James), secondo cui credere in Dio migliora le cose. Ma come si comporta lo scrittore-Dio di fronte a una storia che rischia di produrre sue infinite derivazioni para-sociologiche? Cosa ci impedisce, in altre parole, di cacciare a calci l’autore con la sua storia e tenere solo il pretesto per poter parlare di drammi politici e civili? La risposta di Stephen King è: il male. Il male totale, come caratteristica innata di certi uomini, a prescindere da analisi e psicanalisi.
