Antonio Ingroia è un avvocato ed ex magistrato nato a Palermo più di sessant’anni fa. Quando qualcuno si laureava in diritto penale, a Palermo, nella metà degli anni Ottanta, era molto probabile che la strada che avesse scelto di intraprendere fosse quella della lotta alla mafia. Per Ingroia la storia non fu diversa: la sua tesi sull’associazione mafiosa scritta nel 1986 gli valse pure un riconoscimento come miglior lavoro su Cosa Nostra e fu il preludio per un ingresso al Tribunale di Palermo, lui come molti altri giovani magistrati attratti dal mitico “pool antimafia” inaugurato da Rocco Chinnici solo qualche anno prima. D’altronde, in quegli anni, chi cresceva in Sicilia lo faceva fra le sirene delle ambulanze che accorrevano sui luoghi delle stragi e quelle dei blitz delle forze dell’ordine, in genere dopo un segnale che partiva proprio dal Palazzo di giustizia. In mezzo, tanto, troppo silenzio. Quando Ingroia varcò la soglia del tribunale e cominciò a percorrerne prima i corridoi in superficie, poi le scale e, infine i sotterranei capì che quel percorso lo stava conducendo verso l’ufficio bunker di Giovanni Falcone, a cui era stato affidato per iniziare la professione nell’antimafia: “Mi raccomando. Non deve uscire un foglio da questa stanza e neppure una notizia. Quando avrai letto tutto mi dirai. Ci aggiorniamo la settimana prossima e mi riferirai cosa ne pensi”, furono fra le prime parole rivolte da Falcone a Ingroia dopo avergli affidato un pezzo del fascicolo sul celebre “Maxiprocesso” che avrebbe avuto luogo nel 1986. È qui che inizia “Traditi”, un libro che attraversa la storia dell’Italia impegnata nella lotta a Cosa Nostra scritto sottoforma di “chiacchierata” da Ingroia e dal giornalista Massimo Giletti e edito da Piemme.

Le parole scelte, negli anni, per raccontare la mafia sono sempre state parole precise. Parole che rimandano a temi che ormai conosciamo come la famiglia, l’onore, il pentitismo e l’infamia. Tra queste, c’è il tradimento, il topos con cui Ingroia e Giletti scavano nell’Italia di Cosa Nostra. Il tradimento subito da Falcone prima e da Paolo Borsellino poi. Con quest’ultimo Ingroia passò gli anni della Procura di Marsala. Anni di indagini ma anche di “straordinaria empatia” di Borsellino, il “professionista dell’antimafia” che usciva di nascosto senza scorta per consentire alle famiglie degli agenti di passare del tempo con i propri cari; che con Ingroia cucinava pasta con il tonno in scatola come un fuorisede qualunque e che, dopo ogni momento di sconforto, trovava la forza di ripetere “ma alla fine le cose cambieranno”. Ma ben presto Falcone e Borsellino finirono “isolati” dai colleghi della magistratura e dalle istituzioni prima ancora che da Cosa Nostra: “La porta dell’ufficio, Antonio, la prossima volta lasciala chiusa. Niente porte aperte di questi tempi…”, dice Borsellino a Ingroia poco dopo la strage di Capaci. I due magistrati furono vittime di un “tradimento di Stato” non solo in vita, ma anche dopo la loro morte, con la nomina al loro posto di magistrati rivelatisi poi autori di veri e propri depistaggi che hanno annacquato le indagini e anni di lavoro incessante. Lo fu anche la sentenza con cui, nell’aprile del 2023, la Corte di Cassazione ha confermato l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri e degli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Una sentenza che ha di fatto chiuso il processo sulla trattativa tra Stato e mafia su cui ha indagato anche Ingroia senza però negare che una trattativa ci fu.

Ma furono tradimenti anche quelli che subirono Totò Riina e Matteo Messina Denaro, gli uomini delle stragi di Cosa Nostra che finirono nelle mani dello Stato. Una trama ordita “una cordata interna alla mafia”, soprattutto da Bernardo Provenzano e dai fratelli Graviano il primo, una possibile “consegna”, il secondo, dice Ingroia. Alla base, la necessità di Cosa Nostra di riorganizzarsi perché “l’obiettivo della mafia è entrare in relazione e stipulare accordi con la politica e quindi con lo Stato, per poter condividere il monopolio della violenza e magari ottenere una delega dell’uso della violenza per fini politici”. Ingroia racconta a Giletti di essere stato lui, a sua volta vittima di un tradimento, che avrebbe coinciso con la sua scelta di lasciare la magistratura ma non i tribunali, tornandoci oggi come avvocato dopo un’esperienza internazionale nella lotta al narcotraffico in Guatemala. Una decisione maturata per la difficoltà di proseguire in un contesto sempre più politicizzato – Ingroia, che ha iniziato la propria esperienza politica candidandosi alle elezioni del 2013 sotto il movimento Rivoluzione civile, non ha mai fatto mistero delle proprie idee di sinistra – e dopo le numerose indagini dissoltesi per ragioni rimaste opache.

Traditi è un libro che illumina molti nodi rimasti irrisolti nel rapporto tra l’Italia e Cosa Nostra, elementi a cui solo chi ha condiviso la scrivania con Falcone e Borsellino sa dare ordine. Tuttavia e, comprensibilmente, i quesiti restano tali, perché ad essere sottolineato nel libro è che chiunque, in questa storia, è stato tradito. Falcone e Borsellino dal “palazzo dei veleni” – cioè il Tribunale di Palermo – e da uomini dello Stato, gli stragisti da altri malavitosi, Ingroia stesso dalle correnti interne alla magistratura, lo Stato da sé stesso. Forse perfino Massimo Giletti da La7, dal momento che Ingroia parla della chiusura di Non è l’Arena “proprio alla vigilia di un’importante puntata dove si sarebbe parlato – anche con la mia partecipazione – di mafia, Matteo Messina Denaro e di Campobello di Mazara”. Come spesso succede ai libri che parlano di mafia, anche “Traditi” ha bisogno di proiettare in quell’universo eroico, a tratti mitico, le figure di Falcone e Borsellino. Ma ciò che si apprezza di più sono i racconti, questi sì poco conosciuti, dell’umanità "normale" che, seppur per poco tempo, è riuscita a evadere dalle “vite blindate” dei due ex magistrati.
