Pensavamo che certe storie appartenessero al Sud. Che la mafia fosse roba da cronache lontane, da mondi dove le lupara fanno rumore e le minacce si sussurrano nei vicoli. Ma poi arriva il docufilm Aemilia 220 – La Mafia sulle rive del Po. Claudio Canepari e Giuseppe Ghinami non girano un film. Girano uno schiaffo in faccia. La docufiction, prodotta da Rai Fiction e Fidelio con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, racconta il processo di mafia più grande mai celebrato al Nord. Roba da 220 arresti e un’inchiesta che ha strappato il trucco borghese alla criminalità organizzata. Quella che si infiltra negli appalti, nei bar del centro. C’è tutto: le intercettazioni mai sentite, le ricostruzioni da thriller, le testimonianze che puzzano di paura e cemento. Non è fiction, è peggio: è vero.

E lo è ancora di più quando senti le voci di chi ha vissuto l’indagine, di chi ha inseguito anni di “episodi isolati” fatte di bombe, omicidi, incendi dolosi. Fabio Melchionna è il boss Romolo Villirillo, Cosimo Ribezzi interpreta Nicola Grande Aracri, Savino Paparella è Antonio Gualtieri. E poi gli atti giudiziari che diventano cinema, le intercettazioni che diventano trama, la realtà che – per una volta – si racconta da sola. Senza retorica, senza filtri. Con la regia di chi sa che l’informazione è politica. “La chiarezza è un atto politico”, dice Canepari. E qui ce n’è tanta. Aemilia 220 allora forse non è solo un titolo. È una frattura. Una ferita aperta tra la legalità e il business. Un modo per dire che la mafia, oggi, non ha più bisogno (solo?) delle armi.

