“Quello della giustizia penale è uno degli ambiti in cui di più – in teoria – si prende in esame il rischio dell’errore e nel quale, meno, i protagonisti ammettono di essersi sbagliati. In numerosi casi di errori giudiziari conclamati, gli investigatori, i pubblici ministeri e i giudici che hanno contribuito a condanne poi rovesciate, tendono a rimanere ostinatamente convinti – a volte contro ogni evidenza – delle proprie intuizioni e delle proprie decisioni.” È un bel promemoria in tempi difficili, quello di Gianfranco Carofiglio, che nel suo Elogio dell’ignoranza e dell’errore (Einaudi, 2024). In realtà vale per tutti gli esperti, spiega Carofiglio. Succede quando non ci si pongono dei dubbi durante il percorso: “Alle domande convergenti corrisponde una sola risposta possibile: esse esprimono un atteggiamento autoritario e di chiusura. La tipica domanda convergente è quella del professore che chiede all’allievo sotto esame di rispondere nel modo giusto, l’unico modo possibile. La domanda convergente postula, senza alcuna flessibilità, una (un’unica) risposta esatta e molte risposte sbagliate, replicando un modello regressivo di trasmissione del sapere”. L’errore è considerato impossibile, almeno superata una certa soglia di preparazione. È una forma di stupidità, in fondo, come avrebbe detto l’economista Carlo Cipolla, che ristagna anche tra Nobel e intellettuali.
Sono quelli che Carofiglio definisce “apparentemente competenti”: “Sono in realtà inconsapevoli – ignoranti – della propria ignoranza. I competenti sono consapevoli dei limiti della loro conoscenza, consapevoli della propria ignoranza”. Torniamo però all’esempio della giustizia. Ermes Antonucci stila la lista dei “sopravvissuti” nel 2024: chi ha la forza di leggersi l’articolo e di resistere alla sensazione di vomito così da poter tornare indietro a contare i casi di errori giudiziari, poi ce li dica. Il punto è che a volte gli apparentemente competenti possono rubarvi la vita. Secondo Carofiglio ci sono alcune cose che si possono fare per evitare queste pessime derive. Si tratta di allenarsi ad avere un “cuore del principiante”, uno shoshin: “È un principio importante nelle arti marziali giapponesi, dove indica la necessità di mantenere una mentalità aperta e curiosa anche dopo anni di pratica. Il cuore del principiante (cioè l’atteggiamento di chi è desideroso di imparare, conscio della propria ignoranza e del fatto che non la supererà mai: essa rimarrà sempre una parte della sua esperienza) sembra senz’altro l’attitudine più corretta verso l’ignoto e la complessità”. Per gli scienziati potrebbe essere semplice cautela metodologica. Per i filosofi inclinazione alla meraviglia. Per noi, che viviamo la nostra vita cinquanta a lavoro, tra la gente, e cinquanta sui social, è forse un po’ di umiltà.
Forse, per capirlo meglio, servirebbe anche capire che la competenza non è roba da bot, da “intelligenze artificiali”. La competenza è una forma di talento che invece di essere innato puoi seminare. Nessuna metafora migliore di quella fornita proprio da Carofiglio: “Un giornalista chiese a Mike Tyson se fosse preoccupato per il piano elaborato dall’avversario che di lí a qualche giorno avrebbe affrontato in un incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi di pugilato. Tyson rispose così: «Everybody has a plan, until they get punched in the mouth», tutti hanno un piano, fino a quando non prendono un pugno in bocca”.