A cento anni dalla nascita e a cinque dalla morte, Jean Raspail continua a essere la versione adulta e davvero cattiva di Michel Houellebecq. Gli altri, i nuovi, i politicamente scorretti, sembrano in confronto dei bellissimi cagnolini appena usciti dalla toelettatura. Monarchico assoluto, ultracattolico e tradizionalista, filo-colonialista. Un uomo abominevole se consideriamo gli standard di oggi. Ma gli standard di oggi sono moralmente piatti, esteticamente piatti, intellettualmente inutili. Baffi che appesantiscono le labbra fino a curvarle in un broncio di disillusione e pessimismo. Volto leggermente scavato e sopracciglia folte. Raspail potrebbe essere lo scrittore più odiato dalla sinistra se la sinistra si degnasse di leggerlo. Invece è diventato un autore da condannare perché di ispirazione per l’estrema destra e per i vari Trump, Le Pen e Bannon. Ora il suo romanzo distopico sull’invasione migratoria dell’Occidente viene ripubblicato da La Verità e Panorama, in concomitanza con un’altra edizione, quella inglese, dall’editore indipendente Vauban Books, che permetterà ai curiosi anglofoni di risparmiare svariate decine di sterline e dollari (i tascabili, quasi clandestini, di questo libro, possono costare centinaia di euro). Si tratta de Il campo dei santi, “romanzo centrale per le teorie razziste” (Il Manifesto), “uno dei peggiori romanzi razzisti mai pubblicati” (Valigia Blu). Meglio la definizione del The Spectator: “Probabilmente la cosa più vicina a un vero e proprio libro proibito”.

È in effetti un libro usato largamente per parlare di sostituzione etnica, invasione, scontro di civiltà e così via. A scriverlo è stato un esploratore, autore e vincitore di premi importantissimi in Francia, come il Grand Prix du roman de l'Académie française. Raspail dice di aver avuto l’ispirazione guardando il mare in Costa azzurra, quando ancora non esisteva un vero e proprio “fenomeno migratorio” come quello attuale. Si chiese: “e se arrivassero”? Da qui un romanzo che è stato definito una profezia e che più semplicemente dovrebbe essere considerato, in linea con la fede di Raspail, piuttosto una parabola. Come tale ha creto degli eccessi di schematismo fin dall’incipit, che vennero notati da molti critici al momento dell’uscita, nel 1979. Ma è anche un racconto compatto, fortemente filosofico, che espone completamente il suo autore. Un romanzo coraggioso, altro termine completamente storpiato dal vocabolario amichettista dei nostri circolini culturali. Coraggioso perché perfettamente aderente alle idee dello scrittore, al punto da diventare l’oggetto oscuro, infernale e da censurare di cui ora stiamo parlando. Sì, perché, come scritto, sono più le volte che se ne parla di quelle che vengono colte per leggerlo.

Il timore che milioni di immigrati dall’India potessero cancellare la società occidentale non è semplice razzismo. È una concezione decadente che riguarda prima di tutto se stessi, la stabilità del proprio ambiente, e cioè del proprio territorio. Dunque dei propri confini. E quindi della propria identità. Raspail si chiede cosa accadrebbe all’Occidente se dovesse confrontarsi con un’orda di immigrati, i quali investirebbero la società non come singoli individui, ma come civiltà alternativa in grado di distruggere la nostra. Si tratta di un quesito antropologico (si veda Levi-Strauss), politico (da Spengler all’insospettabile Karl Marx), ma anche filosofico e umanistico. Per questo, accanto a Il campo dei santi, andrebbe letto un pamphlet di un altro scrittore francese, Richard Millet, L’antirazzismo come terrore letterario (pubblicato in Italia da LiberiLibri), in cui si risponde all’interrogativo centrale di Raspail: la società occidentale crea un blocco coerente di approcci buonisti destinati a diventare egemonici e sufficientemente incisivi da contribuire al suicidio del modello occidentale. Cosa sia poi il modello occidentale è un’altra questione (e probabilmente Millet e Raspail non sarebbero neanche troppo d’accordo tra loro; come non lo sarebbero Hayek e Scruton; e forse è proprio questo “il modello” occidentale).

Raspail stesso non si definì mai razzista. Anzi, in un’intervista del 2015 su Le Point, alla domanda se lo fosse rispose: “No, per niente! Non puoi aver viaggiato per tutta la vita, essere membro della Società degli Esploratori Francesi, aver incontrato non so quanti popoli in via di estinzione ed essere razzista.” Una linea di difesa che vale anche per l’inglese Enoch Powell, che il 20 aprile del 1968 tenne un discorso a Birmingham in cui si preannunciava il rischio di una “guerra civile” violenta tra la società che accoglie e chi dovrebbe essere accolto incondizionatamente. Anche lui viaggiatore, esploratore, profondo conoscitore delle terre di cui parlava, segretario ombra della Difesa del Regno Unito, autore coltissimo e analista profondo. La sua profezia si è avverata in varie occasioni, non da ultimo un anno fa, quando centinaia di cittadini sono scesi in piazza in rivolta per le strade britanniche. Di cosa parlava Raspail? Di quello che sta accadendo da anni e continuerà per decenni, e lo ha fatto nello spazio di un romanzo che non accetta compromessi e fa precipitare gli eventi in pochissime, notevoli battute. Davvero una parabola, che come tale non verrà smentita da chi sostiene che nessuno tsunami umano sta modificando istantaneamente il nostro mondo.
