“I vecchi andrebbero ammazzati da giovani”. Ricordo questa frase detta da una mia compagna di classe durante un pranzo nella mensa della scuola. Avevo quindici, forse sedici anni. Ricordo che ridemmo tutti, ci sembrva assurda. Non so esattamente se sia un modo di dire o una trovata linguistica, probabilmente involontaria, della mia amica, ma questa frase, per quanto brutale e di cattivo gusto, nansconde un fondo di verità, almeno quel tipo di verità che si appresta ad apparire all’orizzonte della nostra società. In Italia la maggiore tra le voci di spesa dello Stato riguard proprio il sistema pensionistico. In Europa siamo secondi solo alla Grecia. Il sistema pensionistico italiano, poi, si fonda sullo sfruttamento delle risorse estratte forzosamente, come un pizzo, dagli stipendi dei giovani, che ora si trovano a dover pagare le pensioni di zii, genitori e, talvolta, nonni. Non solo. Il più gravoso servizio pubblico dopo quello previdenziale è la spesa sanitaria, che nel 2024 si aggirava tra i 138 e i 139 miliardi di euro, oltre il 6% del prodotto interno lordo italiano. Circa il 42% della spesa totale riguarda l’assistenza medica a persone over 65 (poco meno del 25% della popolazione), circa il 49% riguarda le persone tra i 15 e i 64 anni. Dunque anche in questo caso la spesa dello Stato aiuta principalmente gli adulti e gli anziani. A questo punto qualche giovane potrebbe dire che sì, i vecchi sarebbe meglio ammazzarli da giovani.
Oltre a essere una considerazione completamente immorale, però, un giudizio del genere finisce in realtà per nascondere una convinzione ben peggiore, quella secondo cui sia normale che le cose vadano così. Nella storia sono gli anziani a dover essere assistiti in quel ciclo della vita umana che li ha portati prima a essere genitori ed educatori e infine i fragili della comunità, verso cui i giovani mostreranno sempre gratitudine. Questo è in parte vero ma, soprattutto, dovrebbe esserlo in una società civile, in cui si riconoscano alcuni valori fondamentali, tra cui quello del rispetto delle persone più grandi di noi (una vecchia abitudine che potrebbero aver smesso di insegnare a scuola). Tuttavia non è affatto vero che la società debba essere completamente orientata al sostentamento delle cosiddette “persone dipendenti” e cioè quelle persone che non producono ma per sopravvivere devono appoggiarsi all’attività lavorativa di terzi. Questa condizione di stallo estremamente nocivo non solo per i più giovan ma per la società in generale, è in realtà il frutto del crollo demografico. La popolazione giovane ha raggiunto un picco nel 1992. Nel 2025 abbiamo perso 2 milioni circa di giovani. Si muore e si invecchia più di quanto si nasca. Siamo al giro di boa che porterà all’estinzione? Ovviamente no, ma i problemi dovuti all’inverno demografico sono gravi e importanti.
Li spiega con lucidità, chiarezza e rigore logico Paul Morland, ricercatore, divulgatore e giornalista inglese, che in Senza futuro: il malessere demografico che minaccia l’umanità (Liberilibri 2025) mette in fila tutto ciò che ci ostiniamo a non voler accettare di un fatto enorme, epocale, che cambierà, anzi sta già cambiando, i connotati delle varie comunità. Il pericolo è maggiore in Occidente e in Asia, ma presto, avverte Morland, si estenderà anche al Sud del mondo. Un’eccezione è costituita da Israele, lo Stato che cresce, progredisce, migliora e, soprattutto, ringiovanisce. Nello Stato ebraico, infatti, il trend della natalità è in crescita e non si limita a essere costante e ottimale (i livelli ottimali, allo stato attuale, sono di due figli per donna). Altrove, e anche in Italia, però, “stiamo assistendno al travaglio del parto di una nuova epoca, di un’epoca snza travagli di parto” spiega Morland. E ci sono motivi per cui dovremmo preoccuaparci. Non solo perché, come abbiamo visto, questo equivale a pretendere da sempre meno giovani di sostenere l’intero sistema. Ma anche perché dei buoni tassi di natalità, la crescita demografica, sono collegati oggi a maggiore prosperità, crescita e progresso. Il futuro, in altre parole, dipende da quanto sapremo restare “giovani”, e cioè creativi, abili, flessibili.

L’impatto negativo della denatalità riguarderà anche la morale. Come spiega bene Morland, il libero mercato è davvero un’istituzione miracolosa che ha permesso all’uomo di emanciparsi dalla povertà e dai suoi ineludibili corollari (qualità e aspettativa della vita per esempio). Minore sarà il numero di nascite, minore sarà il numero di innovazioni, più stantia e antiquata diventerà l’offerta. Arriveremo a un punto in cui non avremo più giovani Elon Musk, giovani Bill Gates, giovani Jeff Bezos. E con loro mancheranno anche i giovani Umberto Eco, le giovani Emily Dickinson, anche i giovani ambientalisti, i giovani attivisti per i diritti umani e così via. L’aspetto morale è particolarmente interessante, perché ci permette di unire alcuni punti. Non è un caso che molti antinatalisti, che spesso giustificano la loro scela di non avere figli per via di questioni politiche, come la crisi climatica, o filosofiche, come l’enorme sofferenza a cui verrebbero sottoposte le nuove persone, siano anche anti-capitalisti. Se, come spiega Morland, la prosperità e la libertà economica dipendono da buoni tassi di natalità, allora è anche vero che la critica ai modelli economici liberali può fare a meno di riflettere sulla crisi demografica. In fondo a una persona completamente disinteressata alla libertà e alla prosperità economica non interessa se il tasso di nascite è troppo basso, anzi, potrebbe essere un alleato in favore di prospettive autoritarie e centraliste. Morland, infatti, mostra anche come società meno giovani tendano ad affidarsi di più allo Stato. I giovani antinatalisti, statalisti convinti, sono in fondo quelle che chiamiamo “persone nate vecchie”.
Morland sconfessa anche alcuni miti apparentemente progressisti. A partire dall’opposizione delle femministe a politiche che incentivino la maternità (o, come propose Morland in un articolo uscito per il Sunday Times, attaccato e assurdamente definito distopico, disincentivino la rinuncia alla genitorialità). Morland comprende il discorso delle donne, che non vogliono essere considerate delle semplici incubatrici e non vogliono tornare a un’epoca in cui la maternità era quasi un evento forzato. Ma fa due semplici considerazioni. La prima: le donne oggi desiderano più figli di quanti effettivamente ne facciano. Molte donne che desiderano figli potrebbero addirittura non aver mai soddisfato questo desiderio. La seconda: esistono società, come in Corea del Sud, in cui è evidente la correlazione (e forse il rapporto di causa-effetto) tra un basso numero di figli e patriarcato. Le donne, infatti, farebbero meno figli semplicemente per assecondare una logica del lavoro che svantaggia le madri, finendo per rendere poco appetibile la genitorialità. Tenuto conto di queste due premesse è evidente che la battaglia femminista contro la natalità è dettata più da un trauma e da un tentativo di assecondare dinamiche che in realtà le femministe dovrebbero puntare a superare con la lotta.

Lo stesso discorso vale per l’immigrazione. In molti sostengono, soprattutto in quell’area che comprende, oltre alla sinistra, un certo liberalismo utilitarista, che il crollo della natalità possa essere un problema solo nel caso in cui le nazioni decidessero di mantenere i confini chiusi. Ma se agevolassimo politiche di apertura, allora i nuovi arrivati sopperirebbero ai nostri problemi demografici. Oltre a essere una prospettiva paurosamente semplicistica e disumana, che non tiene conto per esempio delle tradizioni, dei valori e dell’educazione di un popolo, è anche una pseudosoluzione a un problema reale; e dunque per questo una non soluzione a tutti gli effetti. Soprattutto perché il principio dell’accoglienza ha più o meno la stessa funziona che ha il principio dell’assistenzialismo al Meridione: continuare a gettare farina nel sacco bucato. Per un momento il sacco sembrerà pieno, ma per garantire quella condizione si dovrà continuare a riempire per sempre il sacco pieno di farina. Sarebbe meglio invece trovare un modo per evitare che il buco faccia cadere tutta la farina. Per Morland la questione è al stessa: gli immigrati possono per un momento aumentare il numero di lavoratori che potrano sostenere lo stato sociale (welfare) del Paese, ma è stato osservato che molte popolazioni straniere, una volta integrate nella nostra società, smettono di avere tassi di natalità superiori alla media nazionale. Questo vuol dire che a un certo punto le persone dipendenti torneranno a essere di più. Anche se non viene detto esplicitamente da Morland, che punta a voler allontanare dai pro-natalisti qualsiasi accusa di essere un movimento esclusivamente di destra o conservatore o, peggio ancora, razzista, le alternative che si pongono sono chiaramente due: o che la nostra società torni a tassi di natalità ottimali indipendentemente dall’immigrazione (che dunque potrà essere gestita a parte, anche protendendo per l’accoglienza); o che la nostra società rinunci totalmente a qualsiasi strategia di integrazione e si lasci, per così dire, sostituire da nuove comunità che, oltre a occupare il nostro territorio, potranno impiantare nel “nuovo mondo” il loro modello di società.
La lettura è approfondita e analitica, ma Morland evita di scadere in astrusi tecnicismi. Come da approccio anglosassone, definisce tutto ciò di cui parla, dal “momentum demografico”, al “declino naturale”. Si parla anche di clima, di Stato, di tecnologia. Ma al cuore del discorso mi sembra si possa inserire ciò che così suggestivamente evidenzia nell’Introduzione Marco Valerio Lo Prete, citando Hannah Arendt: che la nascita porta con sé la possibilità stessa di agire, e cioè quella libertà pratica che garantisce a una società di avere successo e quindi, almeno per ora, di non essere costretta a mettere un punto finale alla propria storia.
