Stadi pieni, biglietti introvabili, trionfi da record. O almeno così sembra. Perché dietro, il mondo dei concerti italiani nasconde tutt’altro: biglietti omaggio distribuiti per riempire i vuoti, finti sold out annunciati con numeri gonfiati, location inadatte, speculazione su cibo e parcheggi, cachet milionari e club costretti a chiudere. Un sistema che, secondo Giorgio Riccitelli, manager, promoter e direttore artistico del festival Medimex di Taranto, è “un meccanismo marcio” e che prima o poi presenterà il conto.Le prime avvisaglie ci sono già. Nell’ultima stagione decine di concerti sono stati annullati o spostati in location più piccole, da Tony Effe ai CCCP, mentre per salvare le date negli stadi di Elodie si sarebbe ricorso alla vendita sottobanco di biglietti a prezzi stracciato. “Lì sono stati fatti calcoli sbagliati” dice Claudio Trotta, produttore storico e fondatore di Barley Arts, che da decenni porta in Italia nomi come Bruce Springsteen, Cure e ACDC: “Con la pandemia abbiamo perso ottimi professionisti e ha vinto l’avidità di manager, agenzie e artisti”. I numeri, almeno in apparenza, raccontano una nuova età dell’oro. Secondo l’ultimo rapporto SIAE, dal 2022, complice l’entusiasmo del ritorno alla normalità post-Covid, il numero di concerti è raddoppiato rispetto al 2019. Ma i prezzi sono schizzati alle stelle. “So di famiglie che chiedono prestiti pur di esserci” denuncia Trotta. “Ormai si va ai live per postarlo sui social. Lo vedo a Springsteen, figurarsi altrove”.

Il boom ha innescato un effetto a catena: chi suonava nei club è passato ai palasport, chi nei palasport è salito agli stadi. Una volta era un traguardo da conquistare dopo una lunga gavetta. Edoardo Bennato ricorda il 1981, quando fu il primo rocker italiano a San Siro: “Ci arrivai dopo 14 date in altri impianti, solo con la spinta della gente, senza manager potenti. Gli stadi erano una conquista”. Oggi, invece, sono diventati un passaggio quasi obbligato. Non tutti, però, cedono alla tentazione. Calcutta lo disse chiaramente a Repubblica: “Non ho la fame di suonare in posti così grandi. Già in molti palazzetti italiani si sente malissimo, non credo che negli stadi si senta meglio. La mia ambizione è qualitativa, non quantitativa”. Nel 2025, tra i campioni del gigantismo ci sono Ultimo, con il suo concerto romano del 2026 da 250.000 biglietti già sold out, Vasco Rossi, Cremonini, Pinguini Tattici Nucleari, Mengoni, Max Pezzali. Ma i problemi emergono: a Imola, 85.000 persone per Pezzali e molte si sono lamentate di non aver sentito nulla per la distanza dal palco. “È l’altra faccia del gigantismo dilagante. Spesso si improvvisano eventi enormi in posti inadatti e con sistemi audio inadeguati. Gli spettatori vengono spremuti dal cibo ai parcheggi, comprano biglietti costosi a scatola chiusa e solo dopo scoprono com’è fatta la location. Ci si approfitta di una passione. La legge deve intervenire: serve trasparenza”, spiega Trotta. Trasparenza che manca anche sui “finti sold out”: vendere il vendibile, poi riempire con omaggi e chiudere settori per poter dichiarare il tutto esaurito anche senza aver raggiunto i numeri reali.

“Esibirsi in un ‘San Siro sold out’, anche se non lo è, aumenta il valore dell’artista, apre le porte ad altre venue, consente di alzare i prezzi e di arrivare a Sanremo. È marketing puro”, spiega Riccitelli. Lo stesso Ferdinando Salzano, direttore di Friends & Partners, ha ammesso a giugno: “Torniamo a pensare che 20.000 paganti per un artista sono tanti”. Per qualcuno, però, la bolla è già esplosa. Federico Zampaglione (Tiromancino) ha raccontato storie di artisti che, per aver osato troppo, si sono ritrovati a lavorare gratis per anni per ripagare i debiti con le agenzie. Motta, tra i cantautori di riferimento della scena alternativa, non parla di truffe ma di scelte azzardate: “A volte si parla di anticipi milionari. Se a vent’anni avessi visto certe cifre, avrei accettato anche io, ma non avrei avuto la testa per gestirle”. La differenza, dicono gli addetti ai lavori, è che sono scomparsi i passaggi intermedi: i piccoli locali, dove si formavano pubblico e mestiere, hanno chiuso a raffica, specie in provincia. La pandemia ha favorito i colossi: voucher al posto dei rimborsi, ristori calcolati sul fatturato, grandi entrate senza lavorare. Risultato: i “pesci grossi” hanno divorato i piccoli, l’offerta si è appiattita e il pubblico si è abituato a consumare solo grandi eventi. "Si è perso il gusto di scoprire sconosciuti" osserva Motta. "Senza centinaia di concerti nei club non avrei saputo cosa fare a Sanremo. Oggi c’è chi debutta all’Ariston e poi suona dal vivo solo dopo". Per Bennato, oggi impegnato in concerti da qualche migliaio di spettatori, la strada è puntare sulle nicchie. Per Trotta, invece, bisogna ripartire dal basso: “Pochi concerti estivi non salvano un’economia reale fatta di 12 mesi di lavoro, maestranze e piccoli contesti al collasso. Servono pubblico meno acritico e istituzioni che investano. Ricominciare dalle scuole di musica, dalle fondamenta. O presto arriverà il conto”. Un conto che, se e quando arriverà, non colpirà solo artisti e promoter, ma l’intero sistema della musica dal vivo in Italia.