Chissà se, adesso che è finito, si può parlare di Temptation Island trattandolo per quello che è, ovvero l’ultima iterazione del Defilippismo televisivo, quel micidiale cocktail a base di drammi sentimentali piccanti come l’anduja e accenti meridionali spessi quanto una fetta di melanzana alla parmigiana, capace come nient’altro di far impennare l’indice d’ascolto. Perché nelle scorse settimane ne abbiamo sentite così tante da non sapere neanche più dove metterle (le idiozie). Dai confronti con Madame Bovary all’ennesimo nominare il nome di Gramsci invano, gli intellettuali italiani hanno dovuto inventarsi qualunque cosa pur di giustificare il loro vizietto umano, troppo umano (per loro che si auto-considerano divinità metà Sassicaia e metà Premio Strega) a base di corna e bonazze, col risultato di dar vita all’ennesima iterazione di un grande classico italiano: la trasformazione in miti di mitomani. E sì che le cose, come sempre, sono molto più semplici.

Tanto per cominciare, la ragione principale del successo di Tempetion Island si deve alla controprogrammazione, o meglio, alla totale assenza della stessa. Ci fu un tempo in cui esistevano i palinsesti estivi: quel tempo è finito da un pezzo. I soldi non bastano nemmeno per coprire decentemente la stagione invernale e l’estate è diventata da anni territorio di repliche o, al massimo, di imitazioni da discount del Festivalbar. Tempetation Island rappresenta, dopo anni di vuoto, una produzione vera, con un budget a livello di quelle invernali, che va in onda d’estate solo per non disturbare gli altri programmi di "Madame" De Filippi. Logico che sbaragli la concorrenza, registrando, comunque, ascolti tra i 3 e i 4 milioni in valori assoluti, che sono certamente buoni ma che non possono far gridare al miracolo come invece si è fatto dalla prima puntata. Se andasse in onda d’autunno, per dire, basterebbe un Tale e Quale qualsiasi su Rai Uno per far perdere a Temptation Island almeno 1 milione di ascolto in termini assoluti, e a quel punto l’effetto “trionfo” si sentirebbe assai meno. Del resto, anche La ruota della Fortuna sta registrando ascolti altissimi, proprio perché dall’altra parte non c’è il "gioco d’azzardo legalizzato" di Affari Tuoi. Eppure, nessuno scomoda Proust per spiegare il successo di Gerry Scotti. Non bastasse questo ragionamento elementare, basterebbe fare la fatica di alzare lo sguardo oltre Chiasso – cosa che gli intellettuali di cui sopra fanno assai di rado, essendo il loro sguardo sulla realtà capace di estendersi, al massimo, tra Lampedusa e le Alpi.

Negli Stati Uniti, da anni, tra i programmi di maggior successo c’è Too Hot to Handle, copia carbone del programma delle corna di casa nostra. Si chiamano “reality dating game” e stanno spopolando ovunque: del resto, era il 2020, in pieno Covid, quando Love Island (il titolo vi ricorda qualcosa?), oggi arrivato alla dodicesima stagione in Inghilterra e alla sesta negli Usa, divenne un fenomeno di costume, con bonazzi e bonazze chiamati ad allietare le quarantene della maggior parte del mondo anglosassone. E ci sarebbero anche Love is Blind o FBoy Island, enormi successi in America, a rappresentare il genere, con titoli come Dating Around o Are You The One a rappresentare leggere variazioni sul tema. In altre parole: questi programmi di sole, sesso, addominali e perizomi spopolano nel mondo da anni, alla Fascino lo sanno e ne hanno messo in piedi una loro versione, usando la potenza di fuoco di un ufficio casting oliato da decenni di Uomini e Donne. Non c’è nulla di straordinario, nulla di specificatamente italiano: solo un trend televisivo che, come tale, andrebbe studiato, allo stesso modo in cui nei primi anni 2000 si imponevano i reality di prima generazione capitanati dal Big Brother. E invece, abbiamo dovuto sorbirci per un mese una razione quotidiana di trattati di psicologia di massa, ognuno con l’intento di spiegarci il modo di pensare dell’intero popolo italiano, come se quello che accade da noi fosse un unicum, un fenomeno eccezionale spiegabile solo con la nostra natura di italiani. Che poi, il fine ultimo di questa operazione culturale lo capiamo perfettamente. Sbrodolarsi di lodi per "Madame" De Filippi, sperando di farsi notare per essere invitati in una sua trasmissione qualsiasi; e da li mostrare il faccione e staccare qualche bella fattura, monetizzando finalmente l’assai poco redditizia fama derivante dalle fatiche letterarie. Esercizio più che legittimo, per carità: tutti teniamo famiglia. Solo, nel Paese senza memoria, ci permettiamo di ricordare che una quindicina d’anni fa, giusto l’altro ieri, quegli stessi intellettuali scendevano in piazza al grido di “Se non ora quando”, per protestare contro i palinsesti Mediaset considerati il male assoluto, prendevano di mira le incolpevoli veline di Striscia la Notizia – che rispetto alle trucidone di Tempetation Island erano delle educande – e si eccitavano per documentari sul cosiddetto “corpo della donna” vilipeso, secondo loro, dalle Tv del sultano di Arcore. Tutto perdonato, tutto dimenticato: oggi gli intellettuali, in coda col piattino in mano davanti a Cologno Monzese per un’ospitata, hanno il coraggio di sostenere restando seri, che gli scrittori italiani, per scrivere meglio, dovrebbero guardare Maria De Filippi. E il Pierfiglio dell’ormai Fu Sultano se la tira da strafigo, e rivendica i successi dell’Isola della Corna sostenendo, contemporaneamente, di aver eliminato il trash, con il solo Fabrizio Corona a fargli una pernacchia. Insomma: se prima avevamo toccato il fondo, ora abbiamo ufficialmente cominciato a scavare.
