I romanzi di Donatella Di Pietrantonio, cinque finora, non sono fatti per essere riassunti, se non a grandi linee. Il gioco combinatorio di fabula e intreccio è talmente vorticoso da rendere impossibile una sinossi: tuttalpiù permette una trama superficiale, con il risultato di tralasciare brani decisivi del complicato apparato narrativo che l’autrice abruzzese è capace di montare. Da Mia madre è un fiume all’ultimo L’età fragile, finalista del Premio Strega e già vincitore dello Strega-giovani, il suo modello diegetico non è mai mutato, quanto non solo al registro stilistico - un geyser così vertiginoso di presente e passato da sterilizzare tutti i tempi della narrazione - ma anche al tema, replicandosi di titolo in titolo in modo monomaniacale e rivariato i cascami di un family drama che è il solo genere noto all’autrice, in qualche modo frequentato e condiviso da Sveva Casati Modignani, l’altra più tenace interprete italiana di conflitti familiari, scontri genitori-figli, crisi fraterne, liti coniugali, vite derelitte e cammini della speranza, entro il grande schema del romance posto oggi a statuto della narrativa femminile. Di Pietrantonio è un’accanita funambola di tempi verbali: usa unicamente il presente indicativo, il passato prossimo, l’imperfetto e il trapassato prossimo, mai il canonico passato remoto che è il tempo narrativo per eccellenza, così com’è il presente storico, anch’esso assente. Narrativi sono pure imperfetto e trapassato, ma non presente e passato prossimo, che sono, giusto quanto ci ha insegnato Harald Weinrich, commentativi: vuol dire che il lettore viene attratto nella sfera del narratore che lo chiama ad esprimere sensibilità e maggiore immedesimazione, ciò che non è richiesto dai tempi narrativi che implicano un deliberato distacco tra parlante e ascoltatore, indicando un’oggettività opposta alla soggettività carissima alla scrittura di genere. Servendosi del presente indicativo come “primo piano” (ancora Weinrich) e del passato prossimo come “sfondo”, gli elementi che sono propri piuttosto dei tempi narrativi, Di Pietrantonio crea un corto circuito quando li miscela con l’imperfetto e il trapassato perché i tempi commentativi suppongono una “cornice” (introduzione, rimandi interdiegetici e conclusione), mentre quelli narrativi ne prescindono e reggono l’intreccio senza le digressioni che in Di Pietrantonio sono basso continuo e leitmotiv.
L’assenza totale del passato remoto impedisce peraltro un’operazione che il realismo ottocentesco soprattutto francese, da Balzac a Maupassant, trovava conveniente e di effetto: lo spostamento della narrazione dallo “sfondo” al “primo piano”, operazione che è inefficace nei tempi commentativi, quelli che l’autrice principalmente adotta, perché al posto del “primo piano” è presente la “cornice”. Le cose sono invero ancora più complicate, giacché Di Pietrantonio usa sempre la prima persona singolare e affida all’“io narrante” il ruolo di narratrice. Così facendo, le diventa inevitabile e naturale adottare i tempi commentativi, per cui usa il passato prossimo quando si trova a esercitare la memoria autobiografica, come pure semantica - ciò che fa a ogni occasione in maniera convulsa – ma talvolta, per innestare un’ulteriore analessi, introduce anche il trapassato. Senonché, non contenta del suo tourbillon, di quando in quando indulge pure in prolessi per avvertire il lettore di una svolta futura e creargli un’aspettativa, così tornando a un tempo commentativo. Al di là delle strette teorie strutturalistiche, passate di moda ma non prive tutt’oggi di validità, la tecnica narrativa di Di Pietrantonio si rifà alle forme del new journalism americano che, nel rigoroso strumento dell’“io narrante”, trova (da Tom Wolfe in avanti) i modi per testimoniare la propria vicenda personale. Esemplare il bellissimo romanzo di Joan Didion, L’anno del pensiero magico (2005), al quale la ricerca di Di Pietrantonio guarda da vicino, fatta la differenza tra “vissuto personale” della giornalista statunitense e “narrato vissuto” della scrittrice italiana, che distilla la forma giornalistica in un diarismo testimoniale e decisamente soggettivo. Ma anche nella Didion, signum individuationis è “il fatto”, come entrambe non a caso chiamano l’evento che costituisce il nerbo dell’intero racconto e la sua giustificazione: nella Didion la morte improvvisa del marito cui si riconduce l’elaborazione della perdita e la vita prima e dopo di essa e nella Di Pietrantonio il “segreto” celato nei torbidi di una vicenda familiare. Ma mentre in Mia madre è un fiume (2011) e in Bella mia (2013) il segreto si presenta nella forma di un muro invalicabile - lì la vera personalità della madre che la figlia assiste e qui il vero carattere del nipote di cui la zia si prende cura - in L’Arminuta (2017) e Borgo Sud (2020) il segreto è rispettivamente costituito dal silenzio della madre adottiva, “la madre del mare”, che tace il motivo dell’abbandono della figlia e dalla tendenza omosessuale di Piero, il marito della “arminuta”, sempre un epiteto e mai un nome proprio. Così però non è più in L’età fragile, dove il segreto diventa mistero e non è più familiare, nascosto nelle pieghe di inconfessabili colpe, bensì collettivo, tipico di una comunità montana: un duplice delitto vecchio di trent’anni. Proprio in L’età fragile l’autrice spiega bene cosa intende per “fatto”: “Da allora ogni momento delle nostre vite sarebbe caduto in un prima o in un dopo, non c’era nemmeno bisogno di nominarlo, il fatto”. Rispetto ad esso Di Pietrantonio si situa in afelio, in una posizione temporale che coincide con un suo presente mai precisato nella distanza dai fatti se non, in Borgo Sud, con un’immagine metaforica non proprio felice: “Tutto il passato mi ha richiamata indietro, come una molla tesa che si allenta di colpo e torna alla posizione di partenza”. La posizione di partenza è appunto quella presente dell’“io narrante” e non del lettore che viene invece lasciato senza punti di riferimento temporali. Solo in Borgo Sud, sequel di L’Arminuta e doppio combinato e pedissequo di L’amica geniale, l’autrice fa dire all’“io narrante” che sono trascorsi quindici anni, ma sbaglia perché ne sono trascorsi diciassette, giacché nel 1976 (quando va in onda lo sceneggiato televisivo “Sandokan” di cui dà conto L’Arminuta) l’“io narrante” ha tredici anni e la sorella Adriana dieci. Nel 1993, in Borgo Sud, Adriana ha ventisette anni, come è precisato, e l’“io narrante” quindi trentuno, è già docente all’università di Grenoble (però non sa cos’è il saturimetro) ed è pure già separata dal marito gay. Uno sbaglio di calcolo dovuto senz’altro all’evanescenza dei tempi della narrazione e di quelli della scrittura dell’“io narrante”, anch’essi diversi dagli altri dell’autrice.
Tale patchwork di tempi diversi e circonfusi nell’astratto raggiunge il diapason in Borgo Sud, che rappresenta la prova più elusiva di temporizzazione degli eventi narrati. L’“io narrante” è chiamata da una telefonata e si affretta a tornare a Pescara, dove prende alloggio in albergo e dove si suppone che scriva quello che appare infatti un diario. Il tempo della scrittura dell’“io narrante” sembrerebbe dunque designare il soggiorno alberghiero, giacché leggiamo: “Se la memoria è ancora salda in questa notte interminabile”, oppure “era quasi l’alba quando è arrivato dal bosco il verso angoscioso di un animale predato” e ancora “resta poco della notte. La finestra è ancora un rettangolo scuro, ma filtra l’odore (odore davvero, nda?) di un nuovo giorno”. Ma se il momento della scrittura è proprio questo, quando dall’“io narrante” vengono scritti e dove i fatti successivi relativi alla scoperta dell’incidente capitato alla sorella e alle conseguenze di esso? Diciamolo: per leggere Di Pietrantonio bisogna esercitare la massima sospensione dell’incredulità e non tenere conto del suo metodo, che non è solo una mescidazione confusa di tempi commentativi e narrativi ma anche un espediente letterario che, puntualizzandosi nell’uso della prima persona, si conforma alla narrativa femminile perché richiede la focalizzazione sulla sola propria persona e rende facile esprimere il punto di vista degli altri personaggi attraverso la percezione personale. Questo però comporta che, come accade spessissimo in Di Pietrantonio, i dialoghi si riducano giocoforza e quindi viene meno la migliore caratterizzazione dei personaggi, e che i fatti di secondo grado, quelli appresi da altri e avvenuti in assenza dell’“io narrante”, siano del tutto inverosimili se non impossibili: a meno di credere per esempio che, nel suo faticosissimo coming out, il marito della “arminuta” le abbia riferito pure le parole e i gesti scambiati in un angolo al buio con uno sconosciuto, compresa la frase “Hanno aperto i pantaloni l’uno dell’altro., cominciavano a toccarsi” e non ultimo il gesto del compagno che tenta “di girarlo verso il muro”. In realtà, scegliendo la prima persona e facilitandosi il lavoro, Di Pietrantonio non ha voluto farsi scrupolo, quando le è stato comodo, di servirsi della terza persona e mutarsi così con tutta nonchalance da “io narrante” a narratrice onnisciente. Un vero e proprio salto mortale dove a rischiare è però il lettore. Il quale rimane perlomeno spiazzato di fronte a costruzioni come quella che figura in L’età fragile, dove l’“io narrante” annota: “Oggi canteremo alla messa delle undici nella basilica di Collemaggio”. Annuncia quindi un fatto futuro di cui non può conoscere lo svolgimento e invece qualche rigo dopo troviamo: “Il sacerdote si complimenta per i nostri canti, dopo la messa”. Anche in questo caso, è da farsi la stessa domanda: se il “diario” viene aggiornato nel giorno indicato da quell’“oggi” in cui si esibisce il coro cui appartiene l’“io narrante”, i fatti successivi quando vengono scritti? E dove? Non viene meno a incongruenze di tal fatta neppure L’Arminuta (Campiello 2017). A parte l’assoluta indeterminazione del tempo in cui l’“io narrante” va a trovare il fratello Giuseppe in istituto, dove viene ricoverato in età non più infantile quando invece lo conosciamo e frequentiamo, appare curioso che chi scrive sappia delle voci del paese secondo cui il fratello Vincenzo frequenta “una banda di ladruncoli” mentre non sia a conoscenza, come lo è tutto il paese, che la madre adottiva l’ha restituita a quella naturale perché incinta di un figlio suo. Sempre in L’arminuta, da imputare invece a disattenzione (che però non dovrebbe aversi in un romanzo Premio Campiello) è la versione di latino agli esami di terza media, per giunta con una commissaria che passa tra i tavoli e suggerisce la traduzione di “aut”, nonché la “consegna dei diplomi”. E altrettanto accidentale, ma più grave, è in L’età fragile trovare un pubblico ministero che in Corte d’assise tenga un’arringa anziché una requisitoria e si rivolga al presidente non con il rituale “obiezione, signor presidente”, ma con l’americaneggiante “mi oppongo” avendo per risposta l’improbabile: “Opposizione respinta”.
Soltanto risibile invece riesce quanto si legge in Borgo Sud: “La mia lingua apprezzava per conto suo la cena che Adriana aveva preparato” e “Quel giorno che Adriana l’ha picchiata, mia madre mi ha raccomandato di non dire niente a mio padre, ma non c’era bisogno, non l’ho raccontato nemmeno a me stessa”. L’ha invece appena fatto, dicendolo non solo a sé stessa ma a tutti i destinatari del “diario”. Rispondono poi a un più convenzionale cliché narratologico femminile le locuzioni iniziali di L’età fragile: “Dalla finestra il sole ci cade sopra, illumina la mucca con un ciuffo d’erba in bocca; “I gusci perfetti delle uova mi rassicurano”; “Il suo profilo sussulta a ogni buca dell’asfalto, il naso sempre più tagliente, le labbra ingoiate”. L’età fragile segna nel percorso di Di Pietrantonio un terzo campo di ricerca, quello del family drama commisto nel bildungsroman e nell’eco-lit: il difficile rapporto dell’“io narrante” madre con l’inquieta figlia Amanda, preda di una età certamente fragile (e “fragile” è un aggettivo che ricorre spesso nell’opera intera dell’autrice), si contamina dell’altrettanto difficile e fragile giovinezza vissuta da chi scrive per risolversi, ma in maniera scorciata, in una lotta per la difesa del territorio dalla speculazione edilizia. Di Pietrantonio stavolta ha lavorato ad aggiungere elementi di contrasto ed ha soprattutto sviluppato un gurgite già presente in Borgo Sud, ovvero l’elemento magico, costituito là da centenarie “magare”, maledizioni di madre a figlia, credenze e superstizioni, e qui dalla presenza del bosco. La novità, rispetto ai precedenti romanzi, è nello spostamento del teatro dall’asse città-paese a quello paese-bosco di montagna con la presa in carico di un retaggio letterario che negli anni Novanta è stato uno dei punti di forza della “scuola bolognese” di Carlo Lucarelli, Simona Vinci, Isabella Santacroce e prima ancora Loriano Macchiavelli, cioè il noir. Entro questo genere, che ha avuto in Italia vita effimera ma bruciante, l’elemento del bosco è un caposaldo di cui Eraldo Baldini (con il quale, secondo Valerio Evangelisti nasce il vero noir italiano) è stato il primo alfiere, padre di quel “gotico rurale” agito a ridosso degli Appennini che danno sulla Pianura padana e ora, nella parte orientale degli Appennini centrali che orbitano attorno al Gran sasso, rinverdito da Di Pietrantonio. Ma l’effetto è stato di ibridazione del noir in uno stridente dramma familiare e ancora di più in un superficiale caso di mobilitazione corporativa, quella dei pastori dell’entroterra, contro l’insorgenza palazzinara della città: per modo che il titolo del romanzo appare parziale perché riguarda l’età evolutiva della madre narrante riflessa su quella della figlia tacita ambientalista, mentre tiene fuori tutti gli altri aspetti per niente secondari che fanno del romanzo - o avrebbero potuto fare - un analogon del film The village di Night Scyamalan sull’idea di spartizione del territorio tra abitanti e “creature della foresta”. Il bosco come altrove, dimensione sconosciuta, confine ignoto, minaccia incombente e antitesi della civiltà del progresso perché sinonimo di natura primigenia, risulta alla fine una delle tante e solite divagazioni dell’autrice che ha preferito fermarsi sul terreno a lei congeniale degli affetti e dei rapporti di gomito, ma senza coprirne l’intera estensione. Indistinta e imprecisa appare allora la figura di Amanda, la figlia problematica ma animata da sani ideali, come nelle nebbie esistenzialiste si perde la ‘personalità della stessa madre. Il febbrile rivolgimento di scene e tempi, che ricorda la frenesia di Borgo Sud, contribuisce a fare perdere al lettore la presa con la successione dei fatti. Doralice che scompare nel bosco la ritroviamo subito in Canada passati alcuni anni e, sfogliata qualche pagina, rieccola oggetto di una vasta battuta alla sua ricerca nel bosco. È chiaro che l’autrice non vuole limitarsi a muoversi dentro il suo perimetro e tenta sortite in altri territori letterari per creare la suspense e dare una tinta di thriller al suo complesso e instabile manufatto. Il segreto nascosto dal bosco maledetto, relativo all’uccisione di due ragazze in gita al tempo in cui l’“io narrante” è stata ragazza come lo è “oggi” la figlia, dovrebbe costituire la chiave per svelare quello intimo di Amanda, ma rimane inespresso e insoluto, non bastando l’età fragile vissuta dalla madre a spiegare l’altro. Attorno a questo paradigma si articola un romanzo che mischia troppi generi perché ne possa prevalere uno in maniera distinta e risolutiva. Perdipiù il finale, nell’incompletezza di ogni componente narrativa, si presenta nel genere inopinato del fantasy. Per dire che tutto finisce in nonsenso.