Il più grande scrittore di biografie vivente, Walter Isaacson, scrisse una volta che, a ben guardare, tutti i grandi visionari moderni, da Henry Ford fino a Steve Jobs, hanno due caratteristiche in comune. La prima è il sapersi posizionare nell’intersezione tra due grandi insiemi, quello economico-scientifico e quello artistico-umanistico. È nota, in questo senso, la passione di Steve Jobs per l’estetica: laddove Microsoft e Ibm non vedevano che meri oggetti tecnologici, lui cercava di rendere il Mac un elemento di arredo, e si è visto chi ha avuto ragione. La seconda, è il coraggio folle che li porta a rischiare tutto, anche la loro stessa azienda, per realizzare quel progetto in cui credono e con cui si identificano completamente, spia di una convinzione, altrettanto folle, che il loro lavoro non si esaurisca nel prodotto e nemmeno nella vendita ma abbia a che fare con qualcosa di più grande, come una sorta di missione svolta in nome nella collettività. La mostra Dal cuore alle mani, a Palazzo Reale di Milano fino al 31 luglio dimostra che gli italiani Domenico Dolce e Stefano Gabbana posseggano entrambe queste caratteristiche, e possano essere considerati non come due semplici stilisti, sia pure di enorme di successo, ma come interpreti moderni della lunga tradizione del genio italiano.
Dal Cuore alle mani non è un evento aziendale, né una semplice esibizione di vestiti di lusso: è una mostra (che chi scrive ha avuto la fortuna di visitare privatamente) dedicata al ramo aziendale più prestigioso, eppure misteriosamente ancora poco conosciuto, dei due stilisti italiani, ovvero l’alta moda, la loro personale versione dell’haute couture. Un modo di intendere la moda che c’entra poco o nulla con gli abiti visti a Parigi la scorsa e che rappresenta, piuttosto, un punto di incontro tra la moda e un discreto numero di altre forme d’arte, a dimostrazione che anche un brand può fare cultura, a patto che abbia qualcosa da dire. Il grande cinema, per cominciare, con gli onnipresenti riferimenti al Gattopardo di Luchino Visconti, o l’opera lirica, a cui viene dedicata una grande stanza ovale, allestita come fosse un teatro all’italiana, dove sono esposti abiti ispirati alle opere italiane più note; o, ancora, l’architettura, con le tuniche riccamente decorate schierate davanti alla ricostruzione della facciata del tempio della Concordia di Agrigento. Non si tratta di un semplice rimando tematico: è soprattutto nella tecnica, che l’ultra italianità dell’alta moda made in Dolce&Gabbana si dipana in tutta la sua follia. Ogni pezzo, confezionato rigorosamente a mano, rappresenta una sfida insieme tecnica e creativa, a causa dell’impiego di linguaggi non convenzionali. Come l’uso del mosaico bizantino per confezionare una vestaglia o di composizioni barocche di pietre preziose per impreziosire un sandalo.
È come se secoli di storia dell’arte italiana fossero compendiati in forma di vestiti, ma anche di gioielli, attraverso la linea alta gioielleria, venduti a cifre esorbitanti durante esclusivi “private selling” che gli stilisti organizzano ogni anno, d’estate, in location d’eccezione (quest’anno la Sardegna). Durante questi eventi, ai selezionatissimi ospiti, la stragrande maggioranza stranieri, vengono proposti ricchi programmi culturali, con al centro ancora una volta l’Italia e le sue molteplici ricchezze: straordinaria, anni fa, la rappresentazione della Norma di Bellini nel teatro antico di Taormina. Non sappiamo quanto la variopinta umanità che partecipa a questi eventi sia in grado di apprezzare e quanto invece preferisca eventi più pop, come il concerto di Cristina Aguilera andato in scena il 1° luglio: certo l’opera di rieducazione alla bellezza operata dai due stilisti andrebbe presa d’esempio da una classe politica che non ha saputo produrre altro che la tragicomica campagna Open to meraviglia. In ogni caso, ecco, quell’intersezione tra i due mondi opposti di cui parla Isaacson, economico e artistico, ed ecco il coraggio di due stilisti che, a differenza dei loro colleghi, non si accontentano di vendere vestiti ma si intestano la missione di voler spiegare al mondo, o meglio, alle élite del mondo, di che cosa parliamo quando parliamo di bellezza italiano. E per farlo arrivano a rischiare tutto, perché la storia della nascita di alta moda è, anche, la storia di un’enorme scommessa.
È il settembre 2011 quando i due stilisti dismettono la seconda linea “D&G”, che garantiva un fatturato da 5.300 milioni di dollari, pari al 40% del fatturato annuale. E mentre gli addetti ai lavori pensavano fossero impazziti, loro rispondevano con la celebre frase “non vogliamo diventare i più ricchi del cimitero” mentre in tutta segretezza lavoravano già alla prima collezione haute couture, che esordì l’anno successivo a Taormina. Il resto è, in termini estetici e economici, il racconto di un successo, che ha permesso a Dolce&Gabbana di diventare una maison di moda nel senso più puro del termine, lasciandosi alle spalle quell’immagine un po’ troppo spettinata dei primi decenni. E, soprattutto, di essere ancora oggi un brand orgogliosamente italiano, uno dei pochissimi in grado di resistere alla dittatura dei fondi e dei conglomerati del lusso senza identità, rimanendo quasi a gestione familiare, dal momento che il fratello di Dolce, Alfonso, è l’amministratore delegato e la giovane nipote Giuseppina la responsabile di alta moda. Non importa essere appassionati di moda: Dal cuore alle mani si rivolge a tutti coloro che, almeno una volta, nonostante tutto quello che di brutto offre il presente, a cominciare da Open to meraviglia, si sono sentiti orgogliosi del nostro Paese. Non tutti i brand vengono per nuocere.