Potrebbe essere il miglior titolo dell’anno, Il male maschio (La Nave di Teseo, 2025). Musicalmente omogeneo, concettualmente perfetto. Il “male maschio” è ciò che la nostra società si sforza di combattere. Non tanto il male fatto dai maschi, ma il male in quanto maschio. Per intenderci, quello di cui scrive Francesco Piccolo in Son qui: m’ammazzi o Alessandro Giammei in Parlare fra maschi, pessimi esempi di lecchinaggio ideologico. Virilità come peccato originale, il maschio è sempre tossico. Per usare un titolo di Vanity Fair: “Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida”. Per dirla con Michela Murgia: siamo tutti figli di mafiosi, se non uccidiamo godiamo nel nostro privilegiato costruito sul sangue innocente, quello delle donne. Neanche gli uomini illuminati si salvano davvero. Neanche gli omosessuali o i queer, o le donne transgender. Tutti gli uomini biologici hanno sedimentato, anche per un solo anno della loro vita pensante (diciamo intorno all’adolescenza), i pregiudizi di genere. È il nuovo dogma della sociologia. Ma annacquando il dogma si arriva lo stesso a una verità tanto chiara quanto estrema: qualcosa di vero c’è, ma per capirlo bisogna mettersi dal lato dell’uomo tossico, Andrea Occasi, un traditore, un uomo fondamentalmente dalla mentalità semplice. Quel che si perde, preferendo la letteratura all’attivismo, è proprio ciò che Enrico Dal Buono dimostra in questo romanzo: l’uomo è ferito.

Occasi ha tradito, si è innamorato e ha tradito ancora. Ma la donna che ama lo punisce e lo fa superando di gran lunga la coltre di nebbia psicologica che caratterizza dei rapporti tossici. È tutto sotto la luce del sole, chiaro. È tutto violentemente mostrato, rinfacciato. Fin dall’inizio. “In una città a Occidente ormai c’è buio e c’è un divano e steso sul divano c’è il cadavere di un maschio bianco quarantenne con la faccia di un testimonial della Kinder invecchiato e la testa rotta da quattro colpi di bistecchiera antiaderente”. Ora, questa violenza non è legittima difesa né un omicidio inaccettabile. È violenza naturale, aggressività umana. Aggressività che non ha a che fare con il maschilismo, neanche con un maschilismo assorbito involontariamente dalle donne. Quante volte si sente dire che la donna è violenta perché ha interiorizzato caratteristiche maschiliste, come l’assertività. Ma ne Il male maschio ciò che si nega non è tanto questo, le donne non hanno preso caratteristiche maschiliste; si dice di più. Che l’uomo è un trauma, non è assertivo, è angosciato, in costante decostruzione, sia per spinte esterne (i nuovi militanti transfemministi) sia per spinte interne, primitive, profonde. L’uomo, affetto da una “malattia mortale”, per dirla con Kierkegaard, è incastrato nella violenza tanto quanto la donna. Ecco ciò che li accomuna nel romanzo. Dal Buono scrive con perfida raffinatezza, non si dilunga ed evita facili barocchismi. Preferisce confrontarsi con la realtà in modo estremo, accettando che i suoi libri siano un esempio di estetica pratica, calata nella vita reale. Ma qual è il centro fondamentale che traduce il trauma, l’incapacità di essere migliori di ciò che si è, in amore? Il rapporto con una madre, totem della femminilità sempre fraintesa o rifiutata (la madre stessa è chiamata per nome in tutta la prima parte del romanzo), eppure unico scandaglio per comprendere finalmente che il male non è maschio: è umano.
